14 marzo 2010
Orsola Casagrande : l'Europa non vede la protesta del popolo kurdo
Imrali non è poi così lontana. E a condividere le sorti del loro leader, Abdullah Ocalan, sono in tanti. Mai come in queste settimane è diventato evidente. L'isolamento è certo di Ocalan, rinchiuso da 11 anni nell'isola-carcere e fino a pochi mesi fa unico detenuto. Ma è anche, drammaticamente, dei milioni di kurdi che vivono in Turchia. Circondati da un muro di gomma difficile da penetrare. L'isolamento però è anche quello che vivono i kurdi che stanno in Europa. Centinaia di migliaia di persone. Soli. Invisibili.
In questi giorni questa solitudine si è come materializzata. Decine di giovani, attivisti, dirigenti di organizzazioni legali sono stati arrestati in Italia, Francia, Belgio. L'ultima in ordine di tempo è stata l'operazione condotta da trecento agenti dell'antiterrorismo belga contro RojTv, la televisione satellitare kurda (con regolare licenza in Danimarca). L'accusa è fumosa, si parla di Pkk, il partito dei lavoratori del Kurdistan che l'Europa ha inserito (su ordine di Usa e Turchia) nella black list delle organizzazioni terroristiche. La polizia (c'erano anche agenti turchi) ha fatto irruzione negli studi di RojTv. Ha perquisito e posto in stato di fermo diverse persone, tra cui alcuni giornalisti, poi rilasciati. RojTv (prima Med Tv, poi Medya Tv: non ha cambiato nome per vezzo ma perché messa fuori legge come accade in Turchia per i partiti kurdi) trasmette programmi di ogni genere: news, approfondimenti, talk show e programmi per bambini. Tutto trasparente: basta accendere e guardare.

Prima dell'operazione belga c'era stata quella congiunta Italia-Francia. Smantellato un campo di 'addestramento ideologico' in Toscana, dicono le agenzie. In sostanza, secondo l'accusa il Pkk reclutava giovani da mandare in Kurdistan a combattere. In Italia il partito kurdo si occupava solo dell'indottrinamento ideologico. Non sono state trovate armi. Non c'è traccia di un addestramento militare, precisa la procura di Venezia. Al presunto campo per giovani si insegnava solo 'ideologia'. Vengono in mente le Frattocchie, la storica scuola del Pci. Ma anche le parrocchie. 'Indottrinamento ideologico' è la definizione post-11 settembre con cui si etichettano incontri politici che potrebbero essere paragonati alle scuole quadri o al catechismo.
Decine di arresti, centinaia di migliaia di kurdi. Soli. Manifestano ogni anno al Newroz, il capodanno kurdo, il 21 marzo in molte città europee, e nessuno li vede. L'altro ieri a Bruxelles erano ottomila. I kurdi sono invisibili anche quando scendono per strada. L'Europa è complice di questo isolamento. La Turchia è un partner economico troppo importante. Ma è complice anche la sinistra che in tanti paesi è stata al governo. L'Italia? Dopo la vicenda Ocalan difficile sperare che recuperasse terreno. Il resto d'Europa? Ha scelto di non vedere migliaia di suoi cittadini.
Ma la cosa più grave è che ha scelto di non vedere i kurdi anche quando propongono una soluzione negoziata del conflitto in atto in Turchia dal 1984. Perché oggi il Pkk, che dal marzo 2009 ha proclamato un cessate il fuoco unilaterale, è promotore di una soluzione pacifica al conflitto. Ma l'esercito turco continua a uccidere e bombardare. Ormai si fa prima a contare quanti politici kurdi sono rimasti fuori dal carcere... Siamo al paradosso per cui parlare di pace è reato. Vale la pena ricordare che proprio mentre si consumano gli arresti di decine di kurdi, anche nei Paesi Baschi la sinistra indipendentista parla di pace, propone un percorso di pace e viene zittita. Con il carcere.
La pace non è un business, la guerra sì. Lo diceva Arnaldo Otegi, leader della sinistra basca, nel video inviato alla conferenza di pace organizzata dal comune di Venezia lo scorso novembre (si parlava di paci possibili, in Turchia come in Spagna, nessuno ha raccolto). Un video perché nel frattempo era stato arrestato. Otegi, ricordando il discorso storico di Arafat alle Nazioni Unite, diceva che la sinistra basca (ma vale anche per il Pkk) si presenta davanti al mondo con un ramo d'ulivo in mano. L'invito: «Che nessuno lasci cadere questo ramo d'ulivo». In questo momento sta cadendo a terra.
23 maggio 2009
Orsola Casagrande : il violento Primo Maggio in Turchia
Dopo trentadue anni di divieti i lavoratori sono tornati a celebrare il primo maggio in piazza Taksim. In realtà il prefetto di Istanbul Muammer Guler aveva confermato il divieto di manifestare. Ma i lavoratori e i sindacati fin dalle prime ore del mattino si sono riversati a Taksim. Immediatamente la polizia ha attaccato i manifestanti che si dirigevano verso il centro della città. Idranti, blindati e manganelli. Ventincinquemila poliziotti schierati per impedire ai lavoratori di celebrare la loro festa in quella piazza così densa di significati dove nel 1977 trentasei persone persero la vita, uccise proprio durante le celebrazioni del primo maggio. Le immagini delle bandiere rosse che sventolano in piazza fanno venire i brividi. Così come la violenza spietata delle forze di sicurezza. Centootto le persone arrestate, moltissimi i feriti. Scontri pesanti che hanno avuto luogo nelle stradine laterali che portano a Taksim, ma anche in altre città della Turchia. A Diyarbakir, in Kurdistan, pesante il bilancio della manifestazione dei lavoratori. Una violenza che va ad aggiungersi a quella ormai costante che da dopo le elezioni amministrative del 29 marzo (che hanno registrato il successo del kurdo Dtp) non si è mai fermata.

Le forze dell'ordine in questi giorni sono sotto i riflettori per la morte di un giovane di appena sedici anni, rimasto ucciso durante una operazione «antiterrorrismo» proprio a Istanbul, nel quartiere di Bostanci. Un militante di un gruppo di sinistra legato al Pkk è stato ucciso dopo uno scontro a fuoco durato cinque ore. Oltre a lui sono morti un poliziotto e il giovane passante. Per il prefetto Guler, l'operazione «è stata un successo». Nel confermare il divieto a manifestare a Taksim, il primo ministro Recep Tayyip Erdogan aveva ribadito che la richiesta dei sindacati era «irragionevole. «La piazza - aveva detto - non è adatta a manifestazioni di massa». Durissimi i commenti dei sindacati al nuovo rifiuto. Sami Evren, presidente di Kesk (lavoratori del pubblico impiego) ha sottolineato che «ormai la discussione sulle celebrazioni del primo maggio sono state ridotte a discussioni sugli scontri che puntualmente si verificano. Questa è diventata politica dello stato che continua deliberatamente a ignorare le richieste dei lavoratori». Quanto alle obiezioni sull'inadeguatezza di piazza Taksim, Evren ha ricordato che il cinque aprile scorso la piazza è stata concessa per una manifestazione della polizia. Migliaia di poliziotti si sono concentrati nella centralissima piazza cittadina. «Ma naturalmente - ha concluso Evren - quando la richiesta è dei lavoratori, la risposta è un'altra». La crisi economica intanto continua a pesare sulla già non brillante economia turca. E in più in queste ultime settimane si sono nuovamente intensificati i bombardamenti nel Kurdistan iracheno e in quello turco. Ankara nonostante le pressioni (seppure timide) da più parti per una soluzione negoziata alla questione kurda, continua a bombardare e a parlare il solo linguaggio della guerra. E questo, naturalmente, in termini economici costa. La guerra infatti si mangia una fetta consistente del budget della difesa. Il primo maggio per il governo è stato giorno di lavoro: Erdogan infatti ha annunciato il suo rimpasto di governo. Il consulente speciale del premier, Ahmet Davutoglu, è stato nominato ministro degli esteri. Quest'anno sulla festa dei lavoratori e sulla repressione nei confronti del sindacato e di chi cerca di organizzarsi grava anche una nuova importante sentenza della Corte europea per i diritti umani. Il 21 aprile scorso infatti la Corte ha condannato la Turchia per comportamenti anti-sindacali. Diversi lavoratori erano stati vittime di provvedimenti disciplinari dopo che avevano comunque aderito e partecipato a uno sciopero di ventiquattro ore indetto dal sindacato Kesk.
24 febbraio 2008
Una diga contro i Curdi grazie al banchiere Profumo
Nella fredda mattina di ieri, nella capitale turca Ankara, un nutrito gruppo di cittadini della città di Hasankeyf si è presentato di fronte alle ambasciate di Germania, Svizzera e Austria: protestavano contro la costruzione della diga di Ilisu sulle acque del fiume Tigri, nel sud-est della Turchia - ovvero in Kurdistan, a circa 80 chilometri dal confine iracheno. Per far posto alla diga, opera centrale di un mega-programma infrastrutturale chiamato Gap, promosso dal governo turco nella regione curda sin dagli anni '60, decine di migliaia di contadini curdi stanno perdendo le loro terre, ricevendo scarsi risarcimenti, in un contesto di tensione alle stelle a causa della vicina guerra in Iraq e delle incursioni turche oltre confine. La diga sarà costruita da un consorzio guidato dalla VATech-Siemen e i cittadini di Hasankeyf, sito archeologico di importanza mondiale e simbolo culturale di tutti i curdi che andrebbe sommerso a causa dell'opera, minacciano i tre governi europei che hanno assicurato il finanziamento per il progetto tramite le proprie agenzie di credito all'esportazione: se non potranno più sopravvivere in Turchia, chiederanno in massa asilo politico in Europa. Parliamo potenzialmente di 55.000 curdi. È solo l'ennesimo gesto eclatante di una protesta ormai annosa, e che si riaccende in vista del prossimo capodanno curdo, il Newroz, nella terza decade di marzo. Ma non è solo un affare tra governi quello della diga di Ilisu. A finanziare il consorzio vi sono alcune banche private, tra cui l'italiana Unicredit, guidata da Alessandro Profumo, banchiere di spicco nella finanza europea dopo la serie di mirabili acquisizioni di banche del vecchio continente. Nello shopping mitteleuropeo Profumo si è imbattuto in Bank of Austria. Con 260 milioni di euro di prestito tramite la controllata austriaca, Profumo si rende responsabile del sostegno ad un'opera molto discussa anche in Italia. Sette anni fa, infatti, dopo le insistenze dei gruppi curdi e di numerose organizzazioni europee, il governo Blair e quello italiano riconobbero gli enormi rischi associati al progetto, rinunciando al finanziamento della diga. Attualmente rimangono le stesse preoccupazioni. E poi la diga ridurrà significativamente il flusso delle acque del Tigri, a discapito delle popolazioni che vivono a valle in Siria e soprattutto in Iraq. Il governo di Baghdad ha già protestato nei confronti di Ankara, rimanendo però inascoltato. In Europa è sorta una campagna per la salvezza dello storico sito di Hasankeyf che trova ampio sostegno anche nella comunità di archeologi. Ad aprile, nonostante l'opposizione del governo centrale, sarà aperto un ufficio turistico nella cittadina che ha richiesto di diventare World Heritage Site dell'Unesco. Ma quello che allarma oggi gran parte dei curdi sono i reinsediamenti forzati di migliaia di famiglie, costrette a negoziare un prezzo per la propria terra in un contesto militarizzato e secondo una legge turca decisamente inadeguata. Insomma, Ilisu non è soltanto l'ennesima mega-diga dagli impatti devastanti, ma il primo passo per una resa dei conti finale contro i curdi nella regione. Per questo in migliaia si recheranno a Hasankeyf nei giorni del Newroz. Fino a oggi Unicredit si è difesa dicendo che le agenzie di credito europee hanno commissionato un monitoraggio indipendente, che dovrebbe essere reso pubblico a breve, sull'attuazione delle ben 150 condizioni che queste hanno imposto all'ultimo momento per mitigare gli impatti. Troppo comodo per il banchiere di piazza Cordusio, aspettare l'ennesimo rapporto degli esperti. Qui non si tratta di un'opposizione «Nimby» né qualche impatto in più da mitigare; ad Hasankeyf è in ballo la dignità di un intero popolo da sempre represso nella regione. Un banchiere che si professa di centro-sinistra andrebbe di persona a vedere che cosa succede ad Hasankeyf, a parlare con i contadini curdi sotto lo sguardo violento dei servizi di sicurezza turchi. Altrimenti rimarrebbe un banchiere come gli altri.
(Antonio Tricarico)
Turchia
Curdi
Profumo
Unicredit
| inviato da pensatoio il 24/2/2008 alle 20:26 | |
20 febbraio 2008
Disordine internazionale
Il riconoscimento da parte dell'Italia dell'autoproclamatasi Repubblica del Kosovo sarà un evento grave e triste al contempo. Questo perchè ratificherà ancora una volta il doppio criterio esistente nell'attuale disordine internazionale, per cui alcuni popoli hanno speranza di vedere realizzate le loro legittime aspirazioni ed alcuni popoli no. In questo modo aumenta il discredito in cui si trovano sia le istituzioni sovranazionali tipo le Nazioni Unite sia la stessa Unione Europea divisa ma ancor più subalterna ai disegni degli Usa che attraverso la Nato tendono sempre a forzare la politica europea. Forse si vuole evitare di farsi scavalcare, si vuole al tempo stesso esercitare una pressione sulla Russia (ma conviene ?), ma il rischio è che la rendita fintopacifista dell'Europa venga progressivamente meno. Probabilmente la cosa si risolverà se entrambi gli Stati confluiranno nell'Unione europea. Ma non è escluso che sarà l'Unione Europea a dover digerire un brutto rospo. Forse si voleva esorcizzare la presenza di un'appendice fondamentalista islamica nel nostro continente, ma il traffico di armi e di droga, oltre le basi militari Usa, ci rassicurano di più ? A me pare che si stia giocando comunque con il fuoco. Ma soprattutto si sta rendendo ancora più caotica la gestione delle tensioni nazionalistiche in Europa e nel mondo. Nel frattempo Curdi della Turchia e Palestinesi stanno a guardare. E la rabbia non si dimentica.
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