23 luglio 2008
Israele ed Usa non attaccheranno l'Iran
Se volete capire la politica di un paese, guardate la carta geografica, come raccomandava Napoleone. Chiunque voglia indovinare se Israele e/o gli Usa attaccheranno l'Iran, dovrebbe guardare la mappa dello stretto di Hormuz tra l'Iran e la penisola arabica. Attraverso quest'angusto corso d'acqua, largo solo 34 km, passano le navi che portano tra un quinto e un terzo del petrolio mondiale, compreso quello proveniente da Iran, Iraq, Arabia Saudita, Kuwait, Qatar e Bahrain. Molti dei commentatori che parlano dell'inevitabile attacco americano e israeliano all'Iran non tengono conto di questa mappa. Si parla di un attacco aereo «sterile», «chirurgico». La potente flotta aerea Usa decollerebbe dalle portaerei di stanza nel golfo Persico e dalle basi aeree americane disseminate nella regione, bombarderebbe tutti i siti nucleari iraniani - e coglierebbe l'occasione per bombardare anche qualunque altra cosa capitasse a tiro. Semplice, veloce, elegante - una botta e bye bye Iran, bye bye ayatollah, bye bye Ahmadinejad. Se Israele dovesse agire da solo, l'attacco sarebbe più modesto. Il massimo sarebbe distruggere i principali siti nucleari e tornare a casa sani e salvi. Per favore: prima di cominciare guardate un'altra volta sulla mappa lo Stretto che (forse) ha preso il nome dal dio di Zarathustra. La reazione inevitabile al bombardamento dell'Iran sarebbe il blocco dello stretto che l'Iran domina per tutta la sua lunghezza. Grazie ai suoi missili e all'artiglieria può sigillarlo ermeticamente. Se così fosse, il prezzo del petrolio schizzerebbe alle stelle, ben oltre i 200 dollari al barile che i pessimisti temono ora. Questo causerebbe una reazione a catena: depressione mondiale, crollo di intere industrie, aumento catastrofico della disoccupazione in America, Europa e Giappone. Per evitare questo pericolo, gli americani dovrebbero conquistare alcune parti dell'Iran, o forse tutto. Gli Usa non dispongono nemmeno di una piccola parte delle forze necessarie. Tutte le loro truppe di terra sono già impiegate in Iraq e Afghanistan. La loro potente marina è una minaccia per l'Iran, ma nel momento in cui lo stretto fosse chiuso, assomiglierebbe ai modellini di navi in bottiglia. Questo lascia aperta la possibilità che gli Usa agiscano per procura. Israele attaccherà, senza coinvolgere ufficialmente gli Usa. Davvero è così? L'Iran ha già annunciato che considererebbe un attacco israeliano come un'operazione americana, e agirebbe come se fosse stato direttamente attaccato dagli Usa. Logico. Nessun governo israeliano considererebbe mai la possibilità di lanciare una simile operazione senza l'assenso esplicito e incondizionato degli Usa. Cosa sono dunque tutte queste esercitazioni, che generano titoli così eclatanti nei media internazionali? L'aviazione israeliana sta tenendo esercitazioni a 1500 km dalle nostre coste. Gli iraniani hanno risposto con lanci di prova dei loro missili Shihab, che hanno una gittata simile. Una volta, tali attività venivano chiamate «tintinnio di sciabole», oggi il termine preferito è «guerriglia psicologica». Ma buon senso ci dice che chiunque pianifichi un attacco di sorpresa, non lo grida ai quattro venti. Sin dai tempi del re Ciro il Grande - il fondatore dell'Impero persiano circa 2500 anni fa, che permise agli esuli israeliti a Babilonia di tornare a Gerusalemme e costruire lì un tempio -, le relazioni tra israeliani e persiani hanno avuto i loro alti e bassi. Fino alla rivoluzione di Khomeiny, l'alleanza era stretta. Israele addestrava la temuta polizia segreta dello Shah, la Savak. Lo Shah era partner dell'oleodotto Eilat-Ashkelon, progettato per aggirare il canale di Suez, e aiutò a infiltrare ufficiali israeliani nella parte kurda dell'Iraq. Nel corso della lunga e crudele guerra Iran-Iraq (1980-1988), Israele sostenne segretamente l'Iran degli ayatollah. Oggi l'Iran è una potenza regionale. Negarlo non avrebbe senso. L'ironia è che per questo gli iraniani devono ringraziare il loro principale benefattore in tempi recenti: George W. Bush. Se avessero un minimo di gratitudine, dovrebbero erigere una statua dedicata a lui nella piazza centrale di Tehran. Per molte generazioni l'Iraq è stato il guardiano della regione araba. È stato il bastione del mondo arabo contro i persiani sciiti. Quando Bush ha invaso l'Iraq distruggendolo, ha aperto tutta la regione alla forza crescente dell'Iran. In futuro gli storici si interrogheranno su questa azione, che merita un capitolo a sé nella «Marcia della follia». Oggi è già chiaro che il vero obiettivo Usa era impossessarsi della regione petrolifera Mar Caspio/Golfo Persico e collocarvi al centro un presidio americano permanente. Questo obiettivo è stato raggiunto - ora gli Usa parlano di far restare le loro truppe in Iraq «per cent'anni» - e sono occupati a dividere le immense riserve petrolifere irachene tra le 4-5 gigantesche oil companies americane. Ma questa guerra è stata cominciata senza una riflessione strategica più ampia e senza guardare la mappa geopolitica. Il vantaggio di dominare l'Iraq può essere superato dalla crescita dell'Iran come potenza nucleare, militare e politica in grado di oscurare gli alleati dell'America nel mondo arabo. Dove ci collochiamo noi israeliani nella partita? Da anni siamo bombardati da una campagna propagandistica che dipinge lo sforzo nucleare iraniano come una minaccia all'esistenza di Israele. Certo la vita è più piacevole senza una bomba nucleare iraniana, e Ahmadinejad non è molto carino. Ma, nella peggiore delle ipotesi, avremmo un «equilibrio del terrore» tra le due nazioni, molto simile all'equilibrio del terrore tra Usa e Urss che salvò l'umanità dalla terza guerra mondiale, o l'equilibrio del terrore tra India e Pakistan che fa da cornice a un riavvicinamento tra quei due paesi che si detestano profondamente. In base a tutte queste considerazioni, mi spingo a prevedere che quest'anno non ci sarà un attacco all'Iran, né da parte degli americani, né da parte degli israeliani. Mentre scrivo queste righe mi sovviene un ricordo: in gioventù ero un avido lettore degli articoli di Vladimir Jabotinsky, che mi colpivano per la loro fredda logica e il loro stile chiaro. Nell'agosto '39, Jabotinsky scrisse un articolo in cui affermava categoricamente che la guerra non sarebbe scoppiata, nonostante tutte le voci in senso contrario. Il suo ragionamento: le armi moderne sono così terribili che nessun paese oserebbe cominciare una guerra. Pochi giorni dopo la Germania invadeva la Polonia, dando avvio alla guerra più terribile (finora) della storia umana. Il presidente Bush sta per concludere la sua carriera in disgrazia. Lo stesso destino attende impazientemente Olmert. Per politici di questo tipo, è facile essere tentati da un'ultima avventura, un'ultima chance per aggiudicarsi un posto dignitoso nella storia. Ciononostante, mi attengo alla mia previsione: non accadrà.
(Ury Avneri)
22 luglio 2008
Con Petraeus la situazione in Iraq è di molto, ma di molto migliorata...
Alcuni giornali (ma soprattutto lo stesso Petraeus) sostengono che la strategia detta surge abbia prodotto un grande miglioramento della situazione americana in Iraq (alcuni sono addirittura trionfalistici). Eppure a parte chi non è d'accordo (vedi 1 e 2). l'elenco che segue conferma la legge di Schopenhauer sull'entropia per la quale "Un bicchiere di monnezza in un barile di vino produce monnezza"

22 Giugno
24 Giugno
26 Giugno
27 Giugno
3 Luglio
7 Luglio
13 Luglio
15 Luglio
18 Luglio
21 Luglio
17 giugno 2008
Le bugie e i ricatti di Bush
Il presidente degli Stati Uniti George W. Bush finisce sul banco degli imputati per la guerra in Iraq. La commissione sull'intelligence del Senato americano lo accusa di aver mentito sulle prove ottenute dagli 007 pur di iniziare il conflitto. La notizia non è nuova. Ma, come ha sottolineato ieri il New York Times, i membri della commissione senatoriale hanno preparato «il rapporto finora più completo per stabilire che i decisori politici hanno sistematicamente dipinto un'immagine sull'Iraq molto più nera di quanto era giustificabile dall'intelligence disponibile». L'atto di accusa è contenuto in 170 pagine che ripercorrono le dichiarazioni pubbliche di Bush e di altri esponenti di spicco dell'amministrazione: c'è un'evidente differenza tra le infuocate dichiarazioni per entrare in guerra e le incertezze (e talvolta i conflitti) che c'erano tra gli 007. John D. Rockefeller IV, capo democratico della commissione, ha detto che «il presidente e i suoi consiglieri, all'indomani degli attacchi dell'11 settembre, hanno intrapreso una campagna pubblica implacabile per usare la guerra contro al Qaeda per giustificare il rovesciamento di Saddam Hussein». Sul lato politico, è interessante rilevare che il rapporto è stato avallato non solo dagli otto membri democratici della commissione, ma anche da due esponenti repubblicani: la senatrice Olympia Snowe del Maine e Chuck Hagel del Nebraska. La Casa Bianca liquida le 170 pagine come una «lettura parziale» di quello che è accaduto, sottolineando che le dichiarazioni pubbliche di Bush e degli altri membri dell'amministrazione erano basate sulle stesse informazioni di intelligence fornite al Congresso, appoggiate anche dai servizi segreti di altri paesi. Su questo punto entra in gioco l'Italia, che ha fornito informazioni di intelligence su un presunto acquisto di uranio dell'Iraq in Niger. C'è un altro episodio che riguarda l'intelligence italiana, al quale la commissione dedica un rapporto separato di 52 pagine. Tra il 10 e il 13 dicembre 2001, in un appartamento gestito dal Sismi (oggi Aise), ci furono una serie di incontri tra alti funzionari del Pentagono e esponenti iraniani interessati a rovesciare il regime di Teheran. L'atto di accusa del Senato potrebbe essere utile per il candidato democratico Barack Obama, visto che né il rivale John McCain né l'amministrazione Bush fanno marcia indietro sull'Iraq. Anzi, secondo quanto scrive Patrick Cockburn sul quotidiano britannico The Independent, Washington sta facendo forti pressioni con Baghdad per avere mano libera nel Paese negli anni a venire, tramite la sottoscrizione di un patto che viene chiamato «alleanza strategica». «È una terribile breccia nella nostra sovranità», dichiara un politico iracheno a Cockburn, aggiungendo che il patto delegittima ulteriormente il governo di Baghdad, che verrà continuamente definito una pedina degli Stati Uniti. Secondo la ricostruzione dell'Independent, l'ufficio del vice presidente Dick Cheney sta premendo - tramite l'ambasciatore Usa in Iraq Ryan Crocker - affinché l'«alleanza strategica» sia firmata entro luglio. L'ex presidente iraniano Akbar Hashemi Rafsanjani, ha definito il patto la legalizzazione di «un'occupazione permanente». Il primo ministro iracheno, Nouri al-Maliki, sarebbe contrario alla firma, ma allo stesso tempo sa che il governo non potrebbe rimanere al potere senza l'appoggio degli Usa. Washington, inoltre, ricatterebbe Baghdad congelando 50 miliardi di dollari iracheni alla Federal Reserve Bank di New York. Cockburn scrive che i soldi sono «tenuti in ostaggio»: per riscattarli, il governo iracheno deve accettare il patto. Al momento le riserve irachene sarebbero «protette dai pignoramenti giudiziari grazie ad un ordine presidenziale». Se gli Usa non fossero soddisfatti dalle scelte irachene, l'ordine sarebbe rimosso. Questo farebbe perdere a Baghdad il 40% delle sue riserve all'estero.
(Matteo Bosco Bortolaso)
17 maggio 2008
Preparativi di guerra contro l'Iran ?
Assordante il silenzio nel nostro paese sulle prospettive di una grande guerra mediorientale innescata da un attacco missilistico ed aereo statunitense e israeliano contro una presunta base iraniana per l’addestramento dei terroristi che uccidono i soldati americani in Iraq. Silenzio del governo Berlusconi, silenzio della maggioranza e della minoranza parlamentare, silenzio di politologhi ed esperti militari, silenzio dei mass media. Se ne parla e se ne scrive negli Stati Uniti e in Europa, non in Italia. L’ultimo e più allarmante annunzio di un’imminente apocalisse è stato dato il 9 maggio dal periodico di destra The American Conservative: con il titolo “La guerra con l’Iran può essere più vicina di quanto si pensi” Philip Giraldi, ex funzionario della Cia, riferisce di una riunione del Consiglio della Sicurezza Nazionale che ha approvato i piani di attacco con missili Cruise contro una base Al Qods (la Guardia Rivoluzionaria Iraniana) ove verrebbero addestrati i militanti iracheni impegnati nella guerriglia contro le truppe d’occupazione.

Il Segretario di Stato Condoleeza Rice, il Segretario del Tesoro Henry Paulson, il Consigliere per la Sicurezza Nazionale Stephen Hadley, il Presidente George W. Bush e il Vice Presidente Dick Cheney hanno approvato il piano operativo, mentre il Segretario della Difesa Robert Gates si è espresso a favore di un rinvio dell’operazione. Due giorni prima, il 7 maggio, la Casa Bianca aveva inviato tramite i dirigenti della regione curda in Iraq una comunicazione ufficiale al governo iraniano che chiedeva a quest’ultimo di ammettere le sue interferenze nel paese vicino e l’impegno formale a interrompere il suo appoggio ai vari gruppi di militanti che si battono contro le truppe Usa. Immediata la risposta di Teheran: nessuna discussione è possibile fino a quando gli Stati Uniti non sospenderanno le infiltrazioni di agenti e il sostegno fornito ai dissidenti iraniani. Da qui la decisione dell’Amministrazione Bush di inviare un segnale “inequivocabile” e cioè missilistico alla dirigenza iraniana. Presumibilmente – conclude la nota informativa di The American Conservative – si tratterà di una attacco di precisione mirato contro i dispositivi al-Qods di una base nei pressi di Teheran che eviterà perdite tra i civili: spetterà al Presidente ordinare la missione non appena i preparativi verranno messi a punto.
(Lucio Manisco)
1 marzo 2008
Stieglitz fa i conti alla guerra di Bush
Quando a farti i conti in tasca è uno che ci capisce, difficilmente hai scampo. In questo caso l'esperto non è della guardia di finanza, ma - ancora peggio - l'ex vicepresidnete della Banca mondiale, Joseph Stieglitz. Il quale si è divertito a rivedere le cifre che l'amministrazione Bush sta spendendo tra Iraq e Afghanistan. Un massacro. L'analisi prende il via dalle previsioni rese note dall'ex segretario alla difesa, Donald Rumsfeld: tra i 50 e i 50 miliardi di dollari. Più di recente, il consigliere economico di Bush, Larry Lindsey, ha chiesto al Congresso un finanziamento aggiuntivo di 200 miliardi. Naturalmente, come suggeriva allora Paul Wolfowitz, la «ricostruzione sarebbe stata finanziata con l'aumento della produzione petrolifera» da parte dell'Iraq. Balle, spiega Stieglitz. «I costi diretti dell'intervento in Iraq superano quelli della guerra in Vietnam - 12 anni di durata - e sono già il doppio di quelli della guerra di Corea». Il calcolo è fatto naturalmente in «dollari costanti». Chiaro, oggi l'apparato militare è ipertecnologico; ogni «pezzo» costa molto di più. Il «costo per soldato» è enormemente aumentato: da 100mila a 400mila dollari. Ma fa impressione comunque leggere che «l'unica guerra della nostra storia a costare di più è stata la seconda guerra mondiale, quando 16,3 milioni di soldati furono impegnati in una campagna lunga quattro anni». Quasi 5.000 miliardi, in dollari 2007.

Se verrà approvato il finanziamento supplementare per il 2008, le spese ufficiali «controfirmate» (tra operazioni militari, ricostruzione, costi delle ambasciate, messa in sicurezza delle basi, programmi di aiuti) arriveranno a un totale 845 miliardi. Ma le «spese correnti» assommano ormai a 12,5 miliardi al mese per la guerra in Iraq (erano 4,4 nel 2003), 16 se si calcola anche l'Afghanistan. Ma il conto non include i 500 miliardi annui che vanno al Pentagono, parte dei quali servono direttamente a sostenere le due guerre. In più, per Stieglitz, ci sono i «costi nascosti» (intelligence potenziata, fondi misti con altri dipartimenti). Per esempio, «i benefit in caso di morte e l'assicurazione sulla vita», saliti - con l'inizio della guerra - «da 12.240 (death benefit) a 100.000 dollari, e da 250mila a 400mila (life insurance)». Viene fatto notare che queste cifre, pur consistenti, «sono una frazione di quei 7 milioni che vengono attribuiti in caso di morte per incidente stradale di un giovane all'apice delle sue aspettative future». In più, i 4.000 soldati ufficialmente riconosciuti come «morti in combattimento» sono solo una parte delle perdite. Non lo sono i morti durante i viaggi notturni e in tutti gli altri incidenti «non correlati al combattimento» (ma all'interno del teatro di guerra). E' come se il Pentagono - dice Stieglitz - avesse «doppio libro contabile». Nel secondo, «tra uccisi, feriti o sofferenti per turbe psichiche c'è un numero doppio rispetto a quello» ufficiale. Questa serie di distinguo permette a Stieglitz di arrivare - «per difetto, probabilmente» - a una stima di quasi 3.000 miliardi di dollari già spesi. La domanda che chiunque si pone è semplice: come mai tutta questa «spesa pubblica straordinaria» non ha impedito la crisi finanziaria che sta minando il sistema internazionale? E soprattutto: come mai i cittadini americani non se ne accorgono? Stieglitz, naturalmente, risponde. «Il prezzo in termini di sangue è pagato da volontari e contractors» (non da soldati di leva). Ma «anche se le tasse non sono salite per pagare la guerra, il prezzo è stato finanziato interamente dai contribuenti». Il trucco c'è. «La spesa in deficit dà l'illusione che le leggi dell'economia possano essere annullate, e che si possa avere contemporaneamente sia il burro che i cannoni». Un'illusione, appunto. «I costi della guerra sono reali, anche se possono essere differiti, possibilmente a un'altra generazione». Ma prima o poi si pagano. Anche perché, diversamente dalla spesa keynesiana in «burro» (il welfare, insomma), quella in «cannoni» ha un effetto moltiplicatore assai basso sullo sviluppo. Concentra i profitti in pochissime mani, ma non «redistribuisce» quasi nulla. Nemmeno negli Stati uniti
(Francesco Piccioni)
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| inviato da pensatoio il 1/3/2008 alle 9:38 | |
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