23 giugno 2009
Sergio Cesaratto : le pensioni di Alesina
Con frequenza ossessiva dalle colonne de Il Sole 24 Ore il tridente Tabellini, Perotti e Alesina attribuisce molti mali del paese alla troppo bassa età di pensionamento, tesi ripetuta da Alberto Alesina nel suo editoriale del 14 marzo. Beninteso, il benaltrismo è un vizio odioso, ma lo è altrettanto il riduzionismo che sfocia nel semplicismo. “Le donne italiane al lavoro tra i 55 e i 64 anni – argomenta il docente di Harvard – sono circa il 23% del totale. In Svezia il 70% delle donne di quell’età lavora, negli Stati Uniti il 50%. La media europea (Ue-15) è di circa il 41%. Per gli uomini nella stessa fascia di età le quote sono 46% in Italia, 76% in Svezia, 58% nella media Ue e 70% negli Stati Uniti (dati Ocse 2007)”. Ineccepibile, così come il fatto che ciò accade per tutte le altre fasce d’età, con la sola eccezione dei maschi della fascia d’età centrale. Il tasso di occupazione fra i 15 e i 54 anni (occupati 15-54 su popolazione con più di 15 anni) nel 2007 è 69% per l’Italia (donne 57%) contro 76% (71%) della Francia, 79% (74%) della Germania, 77% (68%) della Spagna, 81% (79%) della Svezia (dati di fonte Ilo). Quindi il problema di cui parla Alesina ha un carattere ben più generale. Le donne, in particolare, lavorano in poche in tutte le fasce d’età e Alesina usa inappropriatamente i dati nell’attribuire alla “bassa” età pensionistica i bassi tassi di occupazione femminili per le over-55 (come mi ha prontamente segnalato Antonella Stirati). Uno studente sarebbe stato sgridato per aver utilizzato in maniera così frettolosa i dati. Il gap con gli altri paesi è forse più elevato per gli over-55, come peraltro per i giovani, ma per costoro è notoriamente più difficile trovare una occupazione una volta persa o mai avuta. Certo, v’è, per chi ha cominciato a lavorare da giovanissimo, la possibilità di andare in pensione relativamente presto, e alcuni privilegi accordati dalla DC al pubblico impiego gridano ancora vedetta. Privilegi, peraltro, mai accordati agli operai per i quali il sistema pensionistico ha svolto in Italia la funzione di supplire all’assenza di ammortizzatori sociali, ad esempio quando negli anni ’80 centinaia di migliaia di lavoratori furono espulsi dal ciclo produttivo. Il pensionamento anticipato ha anche funto da generatore di posti di lavoro per i giovani, ma naturalmente qui Alesina dissentirà, ritenendo che un sistema economico sufficientemente flessibile garantisce occupazione per tutti coloro che siano effettivamente disponibili a lavorare al salario di mercato. Purtroppo ragioni teoriche (come i risultati della controversia sulla teoria del capitale e la lezione keynesiana) ed empiriche ci inducono a ritenere che Alesina abbia torto: l’ammontare dei posti di lavoro creati dipende essenzialmente dalla domanda aggregata, nel breve come nel lungo periodo, e non dalla flessibilità dei salari. Se la domanda è scarsa i posti di lavoro sono pochi e i pensionamenti liberano posti ai giovani.

Certo, questo non è il miglior metodo di trovare una occupazione ai più giovani. Ma allora, caro Alesina, dovremmo piuttosto prendercela con l’assenza di una seria politica economica per la piena occupazione, e concentrarci dunque sulle esigenze di coordinamento tra le politiche dei paesi europei e tra politiche fiscali e monetarie (forse questo ora lo riconoscono la maggior parte degli economisti, ma gli economisti non allineati alla teoria dominante lo denunciano da un bel po’). E in quanto agli ammortizzatori sociali e alla “montagna di debito pubblico” che tanto l’assilla, perché non coglie l’opportunità di essere columnist del Sole per denunciare l’evasione fiscale dovuta al parassitismo di tanti “topi nel formaggio”, per evocare Paolo Sylos Labini? Puntiamo alla piena occupazione e cerchiamo di pagare tutti le tasse e dunque pagarle ciascuno un po’ meno. Solo allora potremmo, eventualmente, dare un qualche credito ai discorsi sull’aumento dell’età pensionabile. Anche se, finché parliamo di operai, la cosa continuerà ad essere improponibile. Basti sostare qualche minuto in una fabbrica per capire perché.
16 giugno 2009
Emiliano Brancaccio : Draghi ci metta una pietra sopra
«La fiducia non si ricostruisce con la falsa speranza». Il governatore della Banca d'Italia Mario Draghi chiude le sue Considerazioni annuali con una implicita stoccata a Berlusconi e alla sua allegra brigata di ottimisti, ancora convinti che da questa crisi si possa uscire a botta di sorrisi e di pacche sulle spalle. I dati riportati da Bankitalia del resto parlano chiaro: la recessione non ha ancora pienamente dispiegato i suoi effetti distruttivi, ed è già pesantissima. In Italia il crollo del reddito previsto per il 2009 ha ormai raggiunto i cinque punti percentuali e Draghi ammette che ben presto la disoccupazione «potrebbe salire oltre il 10 percento». Un dato inquietante, considerato che 1,6 milioni di lavoratori dipendenti e parasubordinati non hanno diritto ad alcun sostegno in caso di licenziamento e che quasi un milione di dipendenti risulta coperto da una indennità inferiore ai 500 euro mensili. La relazione degli uffici tecnici di Palazzo Koch oltretutto mette in luce che il tracollo non è uguale per tutti: la precipitazione dei consumi alimentari segnala in modo evidente «il brusco impatto della crisi sulle famiglie a basso reddito». Il che la dice lunga sulla credibilità di quei giornalisti e commentatori che volutamente adoperano un linguaggio indistinto, e parlano genericamente di "famiglie italiane colpite dalla recessione". Bisognerebbe più spesso puntare l'indice contro questo linguaggio, ogni giorno sempre più fuorviante e in malafede. Riguardo al futuro, a denti forse un po' stretti, Draghi si trova obbligato a frenare gli entusiasmi di chi già intravedeva una luce in fondo al tunnel: «I recenti segnali di un affievolimento della fase più acuta della recessione provengono dai mercati finanziari e dai sondaggi d'opinione, più che dalle statistiche finora disponibili sull'economia reale». E si sa bene quanto i sondaggi e le stesse quotazioni dei mercati possano distorcere la realtà, specialmente in una fase turbolenta come quella attuale. Per questi motivi, sembra difficile considerare l'annunciata ripresa nel 2010 alla stregua di una solida previsione fondata su elementi concreti. Piuttosto, bisognerebbe valutarla per quello che è: poco più di un flebile auspicio.

Dalle Considerazioni annuali del governatore della Banca d'Italia scaturisce dunque una cruda esposizione dei fatti, che costringe a prendere atto della durissima realtà di questa crisi. Tuttavia la fredda analisi dei dati non sembra accompagnata da riflessioni altrettanto convincenti nel momento in cui Draghi passa ad esaminare le cause della recessione e le misure per fronteggiarla. Sulle cause, il governatore si attarda sulla interpretazione finora dominante della crisi, considerata come il banale riflesso di una carenza di regolamentazione presso i principali centri della finanza mondiale. Sui rimedi, Draghi sostiene senza indugio le massicce iniezioni di denaro pubblico a sostegno dei capitali privati, ed anzi invita le autorità ad andare oltre, per esempio diffondendo garanzie pubbliche sui prestiti a rischio o autorizzando la sospensione dell'obbligo di versare all'Inps le quote di Tfr. Quando poi si tratta di pagare il conto per arginare la conseguente espansione del debito pubblico, il governatore concede un breve acuto sulla lotta all'evasione ma poi torna a fischiettare gli antichi motivetti liberisti: innalzamento dell'età pensionabile, riduzione della spesa pubblica corrente, riduzione di fatto dei trasferimenti al Sud, liberalizzazione dei servizi pubblici locali. Eppure, se riconoscesse che al fondo delle cose questa può ben definirsi la crisi di un mondo di bassi salari (diretti e indiretti), il governatore dovrebbe conseguentemente ammettere che le sue ricette accentuano le disuguaglianze sociali, e quindi rischiano di aggravare anziché attenuare la caduta in corso del reddito e dell'occupazione. L'ostinazione di Draghi ha un che di affascinante e di grottesco, al tempo stesso. Egli non sembra ancora disposto a riconoscere il fallimento delle soluzioni liberiste propugnate in questi anni, ed anzi pare in alcuni momenti cimentarsi in vere e proprie arrampicate sugli specchi pur di difenderle. Ad esempio il governatore lancia l'allarme sul crollo dei rendimenti dei fondi pensione aperti e negoziali, che sta sollevando forti dubbi sulla loro effettiva sostenibilità. Subito dopo, però, il capo di palazzo Koch sostiene l'esigenza di preservare il pilastro previdenziale fondato sulla capitalizzazione ed invoca la diffusione di nuovi prodotti finanziari che riducano la rischiosità degli investimenti man mano che ci si avvicini al pensionamento. Una nuova finanza creativa che venga in soccorso alla vecchia? Forse il governatore farebbe meglio a rassegnarsi e a metterci una pietra sopra.
26 maggio 2009
Ugo Pagani : un supermoltiplicatore degli investimenti pubblici
Un lungo periodo di dominio ideologico neo-liberista sta volgendo al termine. Si è trattato di un’ambigua egemonia culturale: in essa sono state incluse cose, come la difesa dei diritti di proprietà (ovvero i monopoli) intellettuali o il lasciar fare all’autoregolamentazione dei gruppi d’interesse, che poco hanno a che fare con il liberismo classico senza “nei”. Sfortunatamente, non è tanto la fine di un’inerzia intellettuale accademica ma una difficile crisi economica che spazza via questa confusa costruzione ideologica che spesso aveva identificato negli USA la sua terra promessa mentre questi portavano avanti politiche (incoscientemente e inconsciamente) keynesiane motivate, fra l’altro, dalla guerra e da un traballante consenso politico. “Vecchie teorie” (considerate fino a un paio di mesi fa dei paria accademici, o al più dei gingilli interessanti solo per gli storici del pensiero) sembrano offrire il principale quadro intellettuale di riferimento per le politiche di comprensione e di contrasto della crisi. Indubbiamente, esse offrono un’utile base per ridare un ruolo interpretativo e propositivo alla nostra disciplina che in anni recenti ha concentrato la sua attenzione quasi esclusivamente sulle situazioni di equilibrio di mercato come se esse fossero lo stato naturale dell’economia, non un possibile momento di quiete di un complesso processo dinamico. Nella presente situazione di crisi, in cui le politiche di sostegno alla domanda non possono più essere inconsce o incoscienti, le vecchie teorie keynesiane offrono un quadro che permette di comprendere in modo più adeguato sia quanto è successo nell’ultimo decennio, sia i problemi che occorre urgentemente affrontare. Anche se parte del quadro teorico di riferimento viene dai lontani anni trenta, nel suggerire delle politiche anti-crisi non si dovrebbe ignorare quanto sia cambiata frattanto l’economia reale. A quel tempo, l’attenzione delle politiche orientate a stimolare la domanda aggregata era rivolta principalmente alle infrastrutture tradizionali: ponti, strade, ecc.. Difficilmente le politiche di sostegno alla domanda aggregata possono avere successo se non si tiene conto del fatto che, nelle moderne economie ad alta intensità di conoscenza, la composizione dei settori produttivi e dell’occupazione è ormai molto diversa. Le politiche anti-crisi dovrebbero sfruttare le nuove opportunità che le economie contemporanee offrono a misure di tipo keynesiano. Esse dovrebbero accettare che non tutte le buche che si scavano sono egualmente utili per stimolare l’economia e che qualcuna di esse può, talvolta, diventare una voragine che forma un buco nero da cui può diventare difficile riemergere. La “policy” proposta nei paragrafi seguenti non pretende di essere l’unica e nemmeno la più importante per affrontare la crisi. Essa vorrebbe, invece, costituire un esempio utile per mostrare che una politica di sostegno alla domanda aggregata può essere più efficace, e in senso keynesiano supermoltiplicativa, se tiene anche conto delle dinamiche microeconomiche di una società contemporanea. Le moderne economie ad alta intensità di conoscenza sono ormai anche caratterizzate da una quota senza precedenti di conoscenza posseduta privatamente (o, in altre parole, di diritti di monopolio in forma di brevetti, copyright ecc.). Mentre le istituzioni globali (il WTO e i relativi accordi TRIPs) hanno reso più redditizia la proprietà intellettuale privata, nessuna istituzione globale ha contribuito ad aumentare la convenienza della proprietà intellettuale pubblica. Le istituzioni correnti (e ancor più quelle assenti) dell’economia globale hanno reso conveniente un eccesso di privatizzazione e di monopolizzazione dell’economia attraverso una rete intensiva di diritti di proprietà intellettuale (Intellectual Property Rights, IPR). Le lobby nazionali e internazionali non hanno poi mancato di sommare a questi perversi incentivi le loro motivazioni intrinseche, da sempre orientate ad acquisire posizioni di monopolio. I diritti di proprietà intellettuale possono essere causa di stagnazione economica. I prezzi di monopolio restringono la produzione. La corsa ad acquisire monopoli può inizialmente stimolare gli investimenti ma, dopo un po’, lo stimolo è progressivamente compensato dalla paura che l’uso di nuova conoscenza possa essere bloccato da monopoli esistenti su conoscenze complementari pregresse (la cosiddetta tragedia degli anticommons). Inoltre, gli IPR hanno effetti asimmetrici su paesi ricchi e paesi poveri. Mentre i paesi in via di sviluppo esportano i loro beni in condizioni concorrenziali, molte imprese dei paesi del primo mondo possono vendere beni ad alto contenuto di conoscenza sotto lo scudo protettivo degli IPR. Nonostante siano presentati come un ingrediente necessario per il libero commercio, gli IPR offrono una protezione più forte della più elevata tariffa protezionistica. Garantiscono una protezione totale non solo nel mercato domestico ma anche in ogni altro mercato nel mondo. Analogamente a tariffe doganali e altre forme di protezionismo, possono solo contribuire a peggiorare la crisi economica. Anche se la crisi è partita nel settore finanziario, è probabile che le istituzioni in essere nella produzione della conoscenza possano contribuire a generare una stagnazione prolungata. Allo stesso tempo, le economie ad alta intensità di conoscenza offrono grandi opportunità per politiche keynesiane efficaci. Invece di essere utilizzate per nazionalizzare in modo inefficiente le imprese che producono beni privati o foraggiare senza limiti quelli che sono stati i principali responsabili dell’accaduto (che non stanno peraltro restituendo in termini di aumentata liquidità il foraggio ricevuto), le politiche keynesiane potrebbero essere usate per diminuire il grado di monopolizzazione della conoscenza e trasferire in modo efficiente la proprietà intellettuale dalla sfera privata a quella pubblica. Il WTO, che ha contribuito a rendere più conveniente la proprietà intellettuale privata, dovrebbe essere bilanciato dall’istituzione di un ricco e autorevole WRO (World Research Organization) che renda possibile una proprietà intellettuale pubblica laddove essa può meglio contribuire allo sviluppo globale. E’ giunto il momento di accettare anche a livello politico che la conoscenza è un bene “non-rivale” o, meglio “anti-rivale”, che dovrebbe essere trattato come la più preziosa e specifica risorsa collettiva dell’umanità. Per usare la sempre vivida immagine di Jefferson, la conoscenza è come la fiamma di una candela: accendere un’altra candela non diminuisce la fiamma delle candele già accese. Al contrario, consentire ad altri di contribuire al fuoco della conoscenza ha l’effetto di accrescere la luminosità di ogni singola candela! Le misure anti-crisi dovrebbero includere il finanziamento delle infrastrutture pubbliche di ricerca. Questo finanziamento dovrebbe essere coordinato a livello sovranazionale per evitare problemi di free-riding tra paesi, che al momento stanno restringendo lo sviluppo degli investimenti in ricerca pubblica. Inoltre, cosa ancora più importante nella crisi presente, il finanziamento può prendere immediatamente la forma di un’acquisizione pubblica di diritti di proprietà intellettuale posseduti dalle imprese private e fungere sia da sostegno alla domanda sia da stimolo a un aumento di efficienza dei mercati. L’effetto di queste politiche andrebbe ben oltre quanto ci si può attendere da molte delle altre misure proposte per fare fronte alla crisi. In primo luogo, l’acquisizione proposta non comporta la nazionalizzazione dell’impresa o l’uso di denaro dei contribuenti senza contropartita. Al contrario, l’IPR è pagato a un prezzo corrispondente al suo valore privato ma viene trasferito all’arena pubblica dove ha un valore molto maggiore e può ridurre i costi di produzione di molti produttori. Solo un monopolista in grado di discriminare perfettamente fra i consumatori (che è ovviamente solo un’utile astrazione teorica) potrebbe ottenere dalla sua proprietà intellettuale un beneficio privato pari a quello sociale che si otterrebbe quando essa fosse messa gratuitamente a disposizione di tutti i concorrenti. Inoltre, i diritti di proprietà intellettuale sono al momento sottovalutati (insieme ai valori azionari delle imprese che li detengono) e questo rende possibile pattuire dei prezzi molto vantaggiosi sia per il venditore monopolista sia per la comunità che acquista il diritto di proprietà intellettuale. In secondo luogo, si garantisce sostegno finanziario a quelle imprese che si sono mostrate più innovative. Un forte stimolo per nuovi investimenti viene, così, dato su due fronti alle imprese che vendono alla comunità i loro diritti monopolistici. Da una parte tali imprese ricevono nuovi fondi, dall’altra, avendo venduto loro diritti di proprietà intellettuale, affrontano una competizione nettamente più dura. Pertanto, esse avranno sia i mezzi finanziari sia un forte incentivo, dovuto alla pressione della concorrenza, a investire in innovazione stimolando così la domanda aggregata. Tutta la catena del processo innovativo sarebbe così accelerata con conseguenze benefiche per la crescita dell’economia e l’efficienza delle singole imprese. Per esempio, nel settore farmaceutico, le ditte alla frontiera del processo innovativo metterebbero subito in produzione dei nuovi prodotti, mentre altri produttori potrebbero iniziare a produrre dei farmaci divenuti generici dopo l’acquisto pubblico dei diritti di proprietà intellettuale. In terzo luogo, un prezzo di monopolio viene sostituito da un più basso prezzo concorrenziale. Anche questo ha un effetto positivo sulla domanda aggregata, non inferiore a quello che si avrebbe con altri provvedimenti tesi ad abbassare i costi di produzione come, per esempio, degli sgravi fiscali. Infine, viene alleviato il problema degli “anti-commons” di cui si diceva; ciascuna impresa può ora investire in nuova conoscenza con la consapevolezza che è meno probabile che la conoscenza pregressa (complementare e necessaria per beneficiare dell’innovazione) sia posseduta e monopolizzata da altre imprese. La politica suggerita diminuisce il costo del rischio delle transazioni future necessarie a utilizzare i frutti dell’attività innovativa. Dunque, se da una parte dei fondi vengono immediatamente acquisiti dalle imprese che sono state più innovative in passato (che spesso appartengono ai paesi più ricchi), dall’altra l’aumento della conoscenza liberamente disponibile per tutti ha effetti diffusi e contribuisce allo sviluppo complessivo dell’economia mondiale. Per di più, in tutti i paesi indipendentemente dal loro grado di sviluppo, gli imprenditori dovrebbero superare un numero minore di barriere monopolistico-proprietarie per fare investimenti innovativi preziosi per la stagnante economia mondiale. Gli effetti moltiplicativi che abbiamo indicato vanno ben oltre quelli tradizionalmente associati alle canoniche politiche keynesiane; gli effetti totali sono più forti sia sul lato domanda che in termini di aumento di efficienza dell’economia. In un’economia ad alta intensità di conoscenza é possibile far funzionare un “super-moltiplicatore” degli investimenti pubblici. Ai tradizionali effetti moltiplicativi che hanno questi investimenti in tempi di depressione economica si potrebbero sommare quelli che ha la conoscenza umana quando il suo uso non é artificialmente limitato dal monopolio intellettuale.
Da economiaeopolitica.it
25 maggio 2009
Riccardo Realfonzo : in pensione più tardi per pagare la crisi ?
Da tempo la questione del debito pubblico si situa al centro del dibattito di politica economica nazionale. Ma con il sopraggiungere della recessione, la tematica è divenuta ancor più cruciale per le sorti del paese. Il problema è che fino ad oggi ha prevalso a nostro avviso una lettura distorta del problema, che ha dato luogo a indicazioni di politica economica discutibili e pericolose. Il convincimento dominante è quello secondo cui la politica del bilancio statale dovrebbe fondarsi su drastiche restrizioni finalizzate al rapido abbattimento del rapporto tra debito pubblico e Pil. Persino adesso, nel corso di una crisi che si annuncia grave, vi è chi si ostina a indicare la via della politica restrittiva. Il prof. Guido Tabellini, Rettore della Università Bocconi, è tra quanti la pensano a questo modo. Suo è l’editoriale apparso in prima pagina sul Sole 24 Ore del 2 novembre scorso, dal titolo “Risparmiare sulle pensioni per finanziare l’emergenza”. Nell’articolo Tabellini sostiene che il crescente differenziale tra i rendimenti dei titoli del debito pubblico italiani e quelli tedeschi “è facile da spiegare”. Egli sostiene che, a differenza di quelle tedesche, le garanzie offerte dallo Stato italiano per la solvibilità del sistema finanziario non sono solide: “per via del suo alto debito pubblico, lo Stato italiano non può essere più credibile di tanto”. “In passato - prosegue Tabellini - molti si erano illusi che l’euro fosse sufficiente a proteggerci, e a tenere basso il costo del debito indipendentemente dalle sue dimensioni. Due anni fa, ad esempio, settanta economisti firmarono un appello per indurre l’allora Governo Prodi a non perseguire l’obiettivo di ridurre il rapporto debito/Pil, limitandosi a tenerne stabile il rapporto (il manifesto, 16 luglio 2006). È anche per via di queste illusioni che in passato non abbiamo approfittato delle circostanze favorevoli, come invece hanno fatto altri Paesi europei. Nel 2000 il debito pubblico italiano era il 109% del prodotto interno lordo. Da allora è sceso di soli 5 punti percentuali. Ora paghiamo le conseguenze di questi ritardi”. Il riferimento di Tabellini è all’appello degli economisti per la stabilizzazione del debito pubblico rispetto al Pil consultabile all’indirizzo www.appellodeglieconomisti.com. Il ragionamento di Tabellini prosegue con l’invito a “non abbandonare il percorso di rientro del debito pubblico”, per cui “eventuali provvedimenti di espansione del disavanzo vanno accompagnati da interventi in senso opposto”. E si chiude con l’invito a “uno scambio che è nell’interesse di tutti: più investimenti pubblici e più sostegno ai disoccupati e ai redditi bassi oggi, in cambio di un innalzamento graduale dell’età di pensionamento e di una riduzione futura della spesa pensionistica”.
L’analisi di Tabellini non ci convince. Per questo abbiamo scritto una breve replica che però il Sole -24 Ore alla fine ha preferito non pubblicare. La riproponiamo in basso con l’auspicio che il prof. Tabellini voglia intervenire su “Economia e politica”, o dove meglio ritiene opportuno, e chiarire gli aspetti del suo ragionamento che ci sembrano oscuri e che per esser sostenuti richiederebbero adeguati supporti teorici ed empirici.

Replica a Tabellini di Riccardo Realfonzo
A quanto pare i venti di crisi riportano alla ribalta la questione del debito pubblico e della scelta dei vari indirizzi di politica economica ai quali ispirarsi per gestirlo. Nell’editoriale del 2 novembre scorso Guido Tabellini esprime un giudizio negativo sull’appello del 2006 di cento economisti italiani contro l’abbattimento del rapporto tra debito pubblico e Pil e a favore di una sua stabilizzazione nell’arco di una legislatura. Secondo Tabellini, infatti, è da proposte di questo tipo che deriverebbero molti degli attuali guai italiani, a cominciare dal rischio di default statale segnalato a suo dire dall’aumento del differenziale tra i tassi d’interesse sui titoli pubblici italiani e i titoli tedeschi. Insomma, ci spiega Tabellini, se non continuiamo ad abbattere il debito pubblico rischiamo la bancarotta. In base a questo suo ragionamento, egli dunque propone che l’inevitabile gestione anticiclica del disavanzo nella fase di crisi venga repentinamente compensata da un ulteriore intervento restrittivo sulle pensioni, e in particolare sull’età di pensionamento.
Il ragionamento di Tabellini appare scarsamente documentato, e dunque allo stato dei fatti molto poco persuasivo. Tra i vari punti oscuri dell’argomentazione di Tabellini ci permettiamo nel poco spazio disponibile di richiamare l’attenzione sul seguente. Sussistendo una vasta letteratura sull’argomento, e non essendovi per quel che ci risulta una ferrea connessione tra rapporto debito/pil e differenziali sui tassi d’interesse, gradiremmo delucidazioni sul punto. A noi pare, infatti, che lo spread sui tassi risponda a numerose sollecitazioni, non ultima quella relativa al grado di competitività nazionale e al connesso andamento della crescita in quanto tale e dei conti esteri. A nostro avviso è esattamente da questa seconda problematica che bisognerebbe far partire ogni discorso sulla sostenibilità della politica economica nazionale, anche perché il tentativo confindustriale di recuperare margini competitivi tramite il reiterato inabissamento dei salari ci pare abbia ormai evidenziato tutti i suoi limiti e la sua inefficacia. Sotto questo punto di vista, d’altra parte, esiste una solida tradizione accademica che propone da tempo, sulla scorta appunto di una proposta alternativa in tema di finanze pubbliche, l’adozione di incisive politiche industriali e infrastrutturali per rilanciare la competitività italiana. Ad ogni modo, e ancor più in una fase nella quale numerosi dogmi economico-finanziari sembrano a dir poco vacillare, sarebbe d’aiuto al dibattito se gli economisti si preoccupassero di citare dati e ricerche prima di presentare al grande pubblico proposte così impegnative sul piano politico e – almeno a nostro avviso – alquanto ardimentose sul piano scientifico.
8 Commenti
Dal sito Economiaepolitica.it
8 marzo 2009
Otto marzo e sessantacinque anni
Voglio festeggiare l'8 Marzo con un po' di rabbia. Non è raro di questi tempi. Ma non sono io che sono andato a sinistra : è il mondo che è andato a destra.

Vogliamo fare un'altro attacco delle pensioni ? Diciamolo. Ma non presentiamolo come una vittoria delle donne. Prima le donne erano costrette ad andare via prima, con una diminuzione di entrate. Ora le donne sarebbero costrette ad andare via dopo, con un sacrificio del loro tempo di vita. Ci sarebbe magari un diritto se si desse la facoltà di andare via prima o dopo liberamente, sacrificando tempo o soldi in maniera consapevole e responsabile. Il resto sono cazzate.
16 febbraio 2009
Sante Moretti : attacco alle pensioni ?
Al sistema pensionistico pubblico sarà portato a breve un attacco senza precedenti. Economisti e opinionisti sostengono che la crisi può essere superata solo se si ridimensiona il sistema pensionistico pubblico. Nascono seri allarmismi sullo stato dei conti di alcune casse "private", per esempio i giornalisti (pensione media lorda 52.000 euro all'anno e consulenti del lavoro 42.000 euro) e ancora di più sull'Inpdap, settore pubblico, che avrebbe maturato un deficit di 13 miliardi. I punti su cui vogliono intervenire, e al ministero del Lavoro stanno lavorandovi alacremente, sono l'età pensionabile, i rendimenti, le attività pesanti e usuranti. Un fronte trasversale, capeggiato dall'on. Emma Bonino, sostiene l'urgenza di portare l'età per la pensione di vecchiaia per le donne a 65 anni come per gli uomini, e a questo fine scomodano persino la parità. Tra i portabandiera di questa tesi vi è l'on. Casini che accusa il Governo di perdere l'occasione della crisi per riformare il sistema pensionistico. E per Casini significa in primo luogo aumentare l'età per il diritto alla pensione. Berlusconi ha dichiarato che l'aumento dell'età pensionabile per le donne è una "opportunità che non devono perdere". Veltroni sostiene che bisogna diminuire la spesa pensionistica a favore degli ammortizzatori sociali. Ma hanno mai sentito questi signori che cosa ne pensa un qualsiasi operaio/a di pensionarsi in un'età ancora più avanzata?

D'altra parte la lavoratrice non è obbligata a lasciare il lavoro a 60 anni, è lei a scegliere ma questi signori vogliono che lavori 5 anni di più. Va gridato un no secco per più ragioni. Ricordiamo agli immemori e ai patiti della famiglia le funzione insostituibili della donna, dalla maternità all'oneroso impegno nella cura dei figli. E inoltre, discriminate nel salario e nella carriera le donne percepiscono pensioni inferiori del 20/30% rispetto a quelle degli uomini. Prima di parlare di parificare agli uomini l'età per il diritto alla pensione delle donne vanno rimossi gli ostacoli che impediscono alla donna di liberarsi dalla attuale condizione. Non solo, vogliono ripristinare lo "scalone" chiamato Maroni. Si propongono di aumentare, gradualmente, da 65 a 70 anni l'età per il diritto alla pensione di vecchiaia. Tutti i provvedimenti che aumentano l'età per il diritto a pensionarsi bloccano le assunzioni e in un momento in cui crescono i disoccupati è una follia. Altra proposta è di cancellare per tutte e tutti il sistema di calcolo retributivo per determinare l'importo della pensione. Con il metodo di calcolo retributivo continuano ad essere liquidate interamente le pensioni a quei lavoratori e lavoratrici che entro il 31 dicembre 1995 avevano maturato una anzianità contributiva non inferiore a 18 anni. Per coloro che a quella data possono far valere una anzianità contributiva inferiore il calcolo con il sistema retributivo viene applicato solo per quel periodo. Vorrebbero inoltre intervenire sui coefficienti moltiplicatori per abbassare ulteriormente i rendimenti. E' altresì allo studio un provvedimento per ridurre i lavori considerati usuranti e limitarne i benefici previsti. E' un attacco a fondo di quel che rimane del sistema pensionistico pubblico con lo scopo di incentivare la previdenza integrativa. Come per il posto di lavoro anche la pensione deve diventare incerta. E' in crisi intanto la previdenza integrativa voluta dai mercati finanziari per fini speculativi, dai padroni per versare meno contributi e dai sindacati per giustificare il taglio della pensione pubblica. Quel 25% di lavoratori e lavoratrici che ha aderito ai fondi pensione registra con sgomento che nel 2008 non c'è stato un rendimento ma una perdita media dell'8% del capitale, cioè del TFR e del salario versato: si va da un +2% a un -19% a seconda delle casse e alla linea di investimenti scelti. Il Tfr nel 2009 sarà rivalutato del 3.97% (0.75% indice inflazione Istat + 1.50% fisso) ed al netto della differenza fiscale tra fondi e Tfr il rendimento sarà del 3.60%.
22 dicembre 2008
Sacconi : lavorare meno, lavorare tutti. Ma Brunetta ?
Brunetta : "Ma che fai, te ne vai ? Non mi si è ancora rizzato..."

Biondina : "Datemi il cambio !!!! "
Brunetta
pensioni
donne
orario di lavoro
| inviato da pensatoio il 22/12/2008 alle 22:50 | |
15 dicembre 2008
Hard Work (Brunetta e le donne)
Brunetta : "Devi lavorare un po' di più..."

Biondina: " Se non ti si rizza dopo sessant'anni di tentativi non è colpa mia..."
Brunetta
pensioni
donne
| inviato da pensatoio il 15/12/2008 alle 22:34 | |
27 agosto 2008
Sistema pensionistico anglosassone in crisi
Sbaglierebbe chi pensasse che solo in Italia e, al più, in qualche altro paese ancora inspiegabilmente arroccato nella difesa e nello sviluppo del welfare pubblico, pensioni e sanità rappresentino un tema sempre caldo. Invero, quasi tutti i paesi sono chiamati a fronteggiare gli effetti dell'invecchiamento, i costi delle passate promesse, le spinte alla privatizzazione e alla riduzione del costo del lavoro. Non fanno eccezione i paesi anglosassoni, a cominciare da Stati Uniti e Regno Unito, che sono alle prese con problemi enormi, che evidenziano tutte le difficoltà e i veri e propri fallimenti del welfare privato cui si affidano prevalentemente. Il caso della sanità statunitense è forse quello più noto: malgrado una spesa complessiva che non ha paragoni in altri paesi (nel 2005 il 15,2% del Pil contro l'8,7% in Italia, secondo i dati Ocse) più di 50 milioni di persone (il 17% della popolazione), risultano prive di assicurazione sanitaria, mentre altre decine di milioni devono fronteggiare coperture sempre più costose e spesso costruite ad arte per abbandonare l'assicurato al proprio destino proprio quando diventa vecchio o malato. Problemi enormi attanagliano anche il sistema pensionistico. Se il dibattito sulle tendenze della spesa pensionistica pubblica negli Stati Uniti o nel Regno Unito fa sorridere i commentatori nostrani, stante che i problemi sono risolvibili con aggiustamenti minimali ai nostri occhi, questo avviene solo a causa del limitatissimo ruolo che assumono le pensioni pubbliche in quei contesti, dove si suppone che la parte più sostanziosa della pensione arrivi dai fondi privati. E qui nascono i veri problemi: 1) tantissimi lavoratori non sono coperti da fondi privati; 2) i tradizionali fondi a benefici definiti (quelli che danno al lavoratore una certa percentuale del salario per ogni anno di lavoro) stanno chiudendo, quando non fallendo; 3) ai lavoratori vengono offerti solo fondi a contribuzione definita ma spesso non possono permetterseli e sono comunque esposti ai capricci dei mercati, visto che sanno quanto ci mettono, ma quanto otterranno dipenderà dall'andamento dei mercati finanziari. 1) Per quanto riguarda la partecipazione ai fondi pensione, nel Regno Unito, secondo dati ufficiali, nel 2004-2005 il 56% dei lavoratori del settore privato non aveva altre forme di previdenza che quella pubblica. Negli Stati Uniti, i dipendenti membri di un fondo pensione non superano il 50% del totale. 2) Ma anche coloro che ad un fondo pensione sono iscritti non possono dormire sonni tranquilli. Ad essere in crisi sono, in primo luogo, i fondi aziendali a benefici definiti, che offrono al lavoratore una pensione legata al suo salario, da affiancare alla pensione pubblica, di importo minimo e uguale per tutti. Erano tali fondi a dominare lo scenario fino a pochi anni fa, ed erano quelli tipici dell'industria, dei trasporti, del settore pubblico. Il fatto è che benefici definiti significa anche contributi variabili: l'azienda, infatti, regola la contribuzione in base all'andamento dei rendimenti sul patrimonio del fondo pensione in rapporto al valore dei benefici promessi. E qui viene il punto: se i mercati finanziari vanno bene, gli iscritti sono ancora giovani e le regole di calcolo del debito pensionistico flessibili, l'impresa può arrivare a pagare contributi molto bassi, quando non nulli, come avvenuto per buona parte degli anni '80 e '90. Tutto cambia, però, col nuovo secolo: da un lato, riduzione dei tassi di interesse e crisi dei mercati finanziari - da quella del 2001 all'ultima crisi legata ai mutui subprime; dall'altro, crescita dei pensionati e riduzione del numero degli attivi nella grande industria. Il patrimonio dei fondi pensione non può allora più essere considerato in bilancio prevedendo rendimenti annui dell'8,75% (pratica corrente fino a tutto il 2002, anno nel quale il rendimento effettivo fu -8,8%), mentre il debito nei confronti degli iscritti non può più essere eluso, in quanto le pensioni vanno effettivamente pagate. Emerge così un'enorme sottocapitalizzazione dei fondi pensione. Limitandoci agli Stati Uniti, al 2006 mancherebbero, secondo dati ufficiali, almeno 450 miliardi di dollari per coprire le promesse pensionistiche già fatte (vedi grafico). Non solo: molti fondi pensione iniziano a fallire, complice anche la legge americana, che permette all'impresa di scaricare in tal modo i costi sui lavoratori e sull'assicurazione pubblica che garantisce una parte delle prestazioni: saltano così negli ultimi anni 3.700 fondi pensione, fra i quali quelli di molte linee aeree (United Airlines, US Airways, TWA) e dell'industria pesante (Bethlehem Steel, LTV Steel, National Steel, Weirton Steel, Kaiser Aluminium). La crisi richiederebbe alle imprese di aumentare sostanzialmente i contributi. Ma questo significa aumentare il costo del lavoro e ridurre la competitività. Ne sanno qualcosa Ford e General Motors, le due grandi che hanno finora evitato il fallimento dei propri fondi pensione, sottocapitalizzati nel 2004 rispettivamente per 12,5 e di 10,3 miliardi di dollari, che lamentano costantemente gli elevati oneri che devono fronteggiare per la copertura dei fondi pensionistici e sanitari aziendali. Se è molto costoso per le imprese chiudere i buchi che emergono, salvo il verificarsi di un nuovo boom azionario che non è però dietro l'angolo, nell'immediato esse possono però congelare i propri fondi, non offrendo più ulteriori benefici previdenziali ai propri lavoratori (soprattutto ai nuovi), ovvero, se proprio qualcosa devono offrire, offrendo solo contributi aggiuntivi a quelli del lavoratore per fondi a contribuzione definita. Di fatto, il sistema dei fondi a benefici definiti sembra ormai avviato al tramonto: nel Regno Unito nel 2007 il 46% di tali fondi era chiuso a nuovi membri, mentre in un ulteriore 15% anche i membri non potevano più acquisire ulteriori diritti. Negli Usa, i dipendenti in attività iscritti ad un fondo a benefici definiti sono passati dal 35% del totale nel 1980 al 18% nel 2004. 3) Dunque, al lavoratore americano o inglese vengono ormai offerti, al più, fondi pensione a contribuzione definita (gli stessi offerti in Italia), sia a livello aziendale, che di categoria o individuale. Ma, di nuovo, emergono problemi sostanziali. Innanzitutto, le imprese, nel passaggio da fondi a benefici definiti a fondi a contribuzione definita, tendono a ridurre drasticamente i contributi: la Pension Commission inglese valuta che, mentre il tipico contributo nei fondi pensioni a benefici definiti in via di chiusura era del 23% del salario, esso scende al 10% nei fondi a contribuzione definita. In secondo luogo, se nei fondi a contribuzione definita l'impresa, versati i contributi, non ha altri obblighi, chi sopporta interamente il rischio è il lavoratore, la cui pensione dipende dai capricci dei mercati finanziari e che rischia, come molti hanno già sperimentato, in caso di crisi di perdere addirittura buona parte del proprio risparmio pensionistico. Infine, il risparmio nei fondi a contribuzione definita è tipicamente abbastanza «liquido», nel senso che può essere riscattato, anche se con qualche penalità, in caso di bisogno; è quanto sta accadendo in tempo di crisi di mutui a molti americani, il che però significa che solo apparentemente si tratta di risparmio pensionistico. Insomma, anche in sistemi diversi le sfide del sistema pensionistico sono analoghe. E il caso anglosassone, lungi dal rappresentare un modello funzionale ed efficiente, appare in profonda crisi e indirizzato su una strada (riduzione dei contributi, chiusura dei fondi a benefici definiti, trasferimento dei rischi finanziari sul singolo individuo) dalla quale sembrano destinati a derivare l'impoverimento dei pensionati e l'aumento dell'in-sicurezza sociale.
(Angelo Marano)
L'illuminante articolo di Angelo Marano mostra i motivi per cui nei sistemi europei continentali il complesso di inferiorità che hanno i governanti nei confronti del modello di welfare anglosassone, sia assolutamente fuori luogo. Tralasciando le evidenti falle della sanità statunitense, anche il sistema pensionistico non se la passa affatto bene. I modelli finanziari di diversificazione del rischio, alla base delle scelte di portafoglio dei fondi pensione, sono ben collaudati e fanno piuttosto bene il loro lavoro, ma hanno per loro stessa natura dei limiti ineliminabili. Con la diversificazione si può infatti eliminare il rischio legato alla volatilità dei singoli titoli, ma non il rischio associato al movimento del mercato finanziario nel suo insieme, il cosiddetto rischio sistemico. Il principio è quello del «mai tutte le uova nello stesso paniere», ma cosa succede se il camion che le trasporta si ribalta? I fondi pensione privati, che garantiscono un reddito a decine di milioni di ex lavoratori e che dovrebbero assicurare una vecchiaia serena a tutti quelli che lavorano oggi, sono per lo più vulnerabili di fronte al rischio sistemico. Tale vulnerabilità potrebbe minare drammaticamente la società tutta, senza la disposizione di un opportuno «paracadute». Il paracadute nell'europa continentale già esiste: ci pensa lo Stato, così inviso ai neoliberali. Neoliberali che curiosamente sembrano dimenticare di essere nella stessa medesima situazione, grazie alla odiatissima entità statale. Oltreoceano infatti, a Washington, sono ben consci della situazione, e se i fondi pensione sono senza protezione di fronte al crollo del sistema finanziario, nessun problema: il paracadute lo mettono al sistema finanziario, a suon di dollari pubblici. Gli stessi dollari pubblici che pensavano di aver risparmiato lasciando alla «mano invisibile» - che spesso dà degli sganassoni tremendi - la serenità dei pensionati e della società tutta. Fare i conti su chi spenderà di più è cosa ardua, e non immune da distorsioni interessate. Una cosa tuttavia è certa: la bilancia dell'ipocrisia pende da una sola parte. (Carlo Leone Del Bello)
3 giugno 2008
La flessione di Sarkozy
«Mitterrand era appassionato di storia francese, Chirac delle arti prime, Sarkozy ama i Rolex e EuroDisney. Abbiamo il presidente che ci meritiamo», dice una battuta della comica Anne Roumanoff, molto cliccata su Internet. Più dottamente, l'editorialista Claude Weill, sul Nouvel Obsevateur, osserva che «anche se oggi non c'è più molta gente che si ricorda di aver votato per lui, Nicolas Sarkozy non si è però autoincoronato, come Napoleone. E' stato proprio eletto. Non dai marziani, ma dai francesi. Da noi (...) C'è una sorta di propensione nazionale a fare cattive scelte - o una scelta che rimpiangiamo subito dopo». E' bastato un anno, per far crollare Sarkozy dal 65% di opinioni favorevoli, un record dopo un'elezione vinta alla grande, al 38% attuale, altro record, ma negativo: nessun presidente è mai stato così poco considerato dopo soli 12 mesi di potere. Ci sono state le amicizie troppo ravvicinate con i potenti della finanza e dei media, le vacanze miliardarie, gli alti e bassi della vita privata spiattellati su tutti i magazine e commentati in diretta dall'Eliseo. Poi, Sarkozy ha abbozzato una svolta, dando l'impressione di voler riprendere la «funzione» presidenziale con la dignità che le coinviene e che si aspetta la parte più anziana del suo elettorato: Sarkozy è stato votato dai cittadini più avanti con l'età, ma in questa categoria di persone il crollo di fiducia è stato il più forte (meno 23%). Poi, negli ultimi giorni, nuova svolta. Sarkozy torna in prima linea, riprende i toni da campagna elettorale che lo hanno portato al successo (ma che hanno causato il crollo alla presidenza). Alla base di questa nuova offensiva, una convinzione profonda: non c'è nessuna alternativa al sarkozismo, pensa il presidente, né a destra né, tantomeno, a sinistra. La Francia ha bisogno di riforme - tutti ne sono covinti - e io imporrò le mie a tutti i costi. L'offensiva prosegue su un terreno sicuro - la lotta all'immigrazione clandestina (25mila espulsioni quest'anno, 28mila il prossimo) e «priorità» per la presidenza francese dell'Unione europea, nella seconda metà di quest'anno. E riparte sulla principale promessa della campagna - il potere d'acquisto. Ma il nervosismo cresce. Lo dimostrano i continui attacchi alla stampa, Afp compresa (accusata di aver «censurato» dei comunicati del partito di maggioranza) e la voglia di punire la tv pubblica, dove non è stata per ora trovata nessuna soluzione sui finanziamenti, dopo l'annuncio della fine della pubblicità. Il bluff del potere d'acquisto Sarkozy dunque è tornato in campagna elettorale. Aveva vinto con la promessa «lavorare di più per guadagnare di più». La legge che avrebbe dovuto rilanciare i consumi, la legge Tepa della scorsa estate, è stata un flop. C'è stato, in sostanza, un regalo ai ricchi di 14 miliardi di euro di sgravi fiscali, mentre la defiscalizzazione degli straordinari ha dato scarsi risultati. L'elettorato popolare, che lo aveva votato in massa, si è sentito tradito. Oggi, Sarkozy riparte alla carica: al centro, il problema dell'aumento del costo del petrolio. E ha deciso di ignorare che più di 500mila persone hanno sfilato giovedì contro la riforma delle pensioni, che nella scuola ci sono state una decina di giornate di protesta molto seguite negli ultimi due mesi e che il malessere cresce. Fa dire da uno dei suoi fedelissimi, il ministro del lavoro, Xavier Bertrand: «Un ministro non è lì per contare i manifestanti». Come aveva già detto il ministro dell'Educazione, Xavier Darcos: manifestate pure, noi non cambiamo linea, le riforme si faranno. Anzi: faremo leggi per limitare il diritto di sciopero, per un «servizio minimo» dappertutto popolare. Gli anni di contributi per le pensioni saranno portati a 41 per tutti, anche per i lavori usuranti e per chi ha cominciato a lavorare da giovanissimo, e anche se il tasso di occupazione dei seniors resta bassissimo e il padronato non vuole sentir parlare di misure coercitive per assumere o mantenere al lavoro chi ha più di 50 anni. I tagli nel pubblico impiego saranno, come previsto, di 29mila posti di lavoro quest'anno, di cui 11.200 solo nella scuola secondaria. Un funzionario su due che va in pensione non sarà sostituito. Sarkozy ha deciso di ignorare il malessere sociale diffuso e punta tutto su una riformetta molto debole: aprire il commercio a una più grande concorrenza, permettendo il sorgere di un numero maggiore di supermercati, soprattutto hard discount, per far abbassare i prezzi. L'ottimismo è corroborato dalla crescita del 2007 - più 2,2% - superiore a tutte le previsioni. Le corporazioni si scatenano Ma le corporazioni che sanno di avere un orecchio sensibile nella destra non si accontentano della pioggia di milioni promessa per calmare gli umori. I pescatori francesi sono sul piede di guerra, i porti sono in gran parte bloccati, gli episodi di violenza si susseguono. Non credono che la promessa di sovvenzioni per 108 milioni di euro possa risolvere i loro problemi strutturali. E il progetto di sovvenzionare il litro di gasolio per i pescatori, che lo pagheranno 40 centesimi invece di 70, ha fatto venire delle idee ad altre corporazioni: gli agricoltori e i camionisti hanno chiesto un analogo intervento. I trasportatori minacciano di bloccare la Francia con operazoni-lumaca sulle strade, gli agricoltori si preparano all'azione. Nel frattempo, pensionati, insegnanti e impiegati pubblici (queste due ultime categorie più legate alla sinistra) accumulano rancori perché, malgrado la forte mobilitazione, vengono ignorati, mentre ai pescatori sono bastate alcune azioni di forza per ottenere qualche milione. I disoccupati masticano amaro Ancora peggio per i disoccupati, considerati ormai con sospetto come imbroglioni che gravano sui conti pubblici. Ormai, i disoccupati dovranno accettare una proposta di lavoro «ragionevole». Al secondo rifiuto, cominceranno a perdere i sussidi. «Proprio nel momento in cui i conflitti salariali sono in aumento, come non erano mai stati da tempo - afferma Bernard Thibault, leader della Cgt - il governo vuole imporre ai lavoratori licenziati di accettare un impiego a un salario inferiore al precedente, addirittura qualsiasi lavoro pagato un po' di più degli indennizzi. E' una forma di dumping sociale rivendicato politicamente e un incoraggiamento al padronato per contenere le rivendicazioni salariali». Per non parlare dei poveri (4 milioni) e delle banlieues, più o meno abbandonati, con programmi in attesa di trovare eventuali finanziamenti. La fronda a destra Una serie di incidenti parlamentari ha messo in luce una presa di distanza tra una parte dei parlamentari dell'Ump e il presidente uscito dal loro campo. Il governo è andato sotto grazie a una mozione di procedura di un parlamentare comunista in occasione della discussione dell'ambigua legge sugli Ogm (organismi geneticamente modificati), combattuta dagli ecologisti ma presentata come un felice «compromesso» dal ministro Jean-Louis Borloo. La legge poi è passata di forza, senza discussione parlamentare, ma la fronda di una buona fetta di deputati Ump, che ha disertato l'aula, ha lasciato il segno. In più, la commissione affari esteri ha emesso parere sfavorevole sul progetto di riforma costituzionale ora al voto dei parlamentari, il più ambizioso dalla fondazione della V Repubblica. Inoltre, le ripetute critiche di Sarkozy al suo predecessore Chirac sono dispiaciute a parte della destra. Sarkozy si sente solo. La conflittualità con il primo ministro, François Fillon, che lo supera da mesi nei sondaggi, è al colmo. Al punto che, da due settimane, Sarkozy riunisce all'Eliseo un gruppetto di 7 ministri considerati «fedelissimi», cui ha affidato il compito di «fare politica»: c'è l'ambizioso Xavier Bertrand, c'è il ministro dell'Educazione Xavier Darcos, ma non ne fanno parte né il primo ministro, né i responsabili dei grossi dicasteri (Interni, Esteri, Giustizia, Economia). La cacofonia è forte a destra. I ponti sembrano rotti anche con la direzione dell'Ump: il segretario Patrick Devedjian è stato seccamente smentito da Xavier Bertrand sulla proposta di «smantellamento definitivo» delle 35 ore (abolire le 35 ore significherebbe annullare di fatto gli efffetti della defiscalizzazione degli straordinari). E a sinistra c'è la guerra dei leader Di fronte all'attacco alle 35 ore, il Ps non ha reagito, imbarazzato. Sulla riforma delle istituzioni, regna la confusione. Neppure le manifestazioni di protesta sono riuscite a ridare veri contenuti a sinistra. Fillon è convinto che la destra ha ormai vinto «la battaglia ideologica». Il Ps è preda della guerra per la leadership (del partito e, in prospettiva, per la candidatura all'Eliseo nel 2012). L'ex candidata Ségolène Royal è partita per prima, per conquistare la segreteria. Il sindaco di Parigi, Bertrand Delanoë, ufficiosamente, si prepara anch'egli alla battaglia. Dominique Strauss-Kahn, dall'Fmi a Washington, pensa a un rientro per la scadenza del 2012. Martine Aubry, rieletta bene a sindaco di Lille, è tornata in pista. Poi ci sono i giovani leoni, in primis l'ex ministro degli affari europei Pierre Moscovici e il sindaco di Evry, Manuel Valls. Sul piano delle idee, è la corsa alla realpolitik. In sostanza, passo dopo passo, l'asse del Ps si sposta a destra. «Liberale e socialista» dice di sé Delanoë, dove liberal in francese significa anche «liberista». Royal insiste sul «gusto del rischio» in economia, per Delanoë «il problema numero uno della Francia è la competitività internazionale delle imprese». Valls, sindaco di un comune di banlieue, insiste sulla «sicurezza». Delanoë ammette che «la sinistra deve interiorizzare il bisogno di autorità della società». Royal già voleva i «centri educativi chiusi» per i giovani devianti. La nuova «dichiarazione di principi» del Ps sposa il «riformismo». Royal ha aperto chiaramente ad alleanze con il centro, mentre Delanoë, per il momento, temporeggia, e afferma: «non credo che un'offerta politica possa situarsi, contemporaneamente, a destra e a sinistra, è una forma di menzogna». Di fronte a questo progressivo scivolamento verso il centro, l'opinione pubblica mette tra le personalità più amate a sinistra il giovane Olivier Besancenot, portavoce della Lcr, che alle ultime presidenziali ha sfiorato il 5% polverizzando tutti i rivali alla sinistra della sinistra e che, in autunno, intende fondare un nuovo «partito anticapitalista».
Anna Maria Merlo
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| inviato da pensatoio il 3/6/2008 alle 5:26 | |
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