2 luglio 2008
L'illuminismo e la globalizzazione
Il libro che Rino Genovese ha dato alle stampe col titolo "Gli attrezzi del filosofo" è un libro sul destino dell'illuminismo. Dell'illuminismo come progetto filosofico-politico, come motore della storia non solo moderna ma contemporanea, come matrice antropologica di quell'essere umano che siamo noi occidentali. Matrice in crisi, perché l'orizzonte dei diritti non ci ha liberati, bensì asserviti; perché la libertà di comunicazione non ha dato voce ai conflitti in corso, bensì li ha uniformati nella chiacchiera in cui ciascuno ha le sue ragioni e dunque i suoi torti, il forte come il debole, il ricco come il povero. Perché, infine, la logica della rappresentazione democratica del confronto sociale non ha affrontato tensioni e disuguaglianze, bensì le ha neutralizzate in un gioco delle parti sempre più estrinseco e ineffettuale. Tutti noi siamo promessi alla terra dei diritti, e certo è meglio che un bambino abbia il diritto di studiare piuttosto che la certezza di finire in mano a un mercante di schiavi. Eppure la logica dei diritti non dà, ai pochi fortunati e ai tanti aspiranti di ogni parte del mondo, altro che la possibilità di diventare uno spettatore televisivo e un compratore di automobili, un docile produttore di nulla e un allegro consumatore di nulla. È un fallimento, e in questo caso che fare? È una realizzazione, e in questo caso sarà bene accontentarsi di quel che di buono ne può venire? Soprattutto, dove si colloca questa domanda sul fallimento o sulla realizzazione dell'illuminismo? È questa terza domanda che caratterizza della riflessione di Genovese, e del suo modo di intendere la filosofia, o come preferisce dire la teoria. Per un verso infatti una domanda simile segna la fine del progetto illuministico. L'uomo dei diritti è giunto in porto, ma il porto è quello sbagliato. Il diritto all'uguaglianza è diventato un dovere di uguaglianza: questo colonialismo dal volto umano, questa sistematica esportazione del libero mercato a colpi di bombe non sono poi così estranei al progetto riformistico e nobilmente umanistico della globalizzazione dei diritti «dell'uomo e del cittadino». Per altro verso la domanda è tutt'altro che estranea all'illuminismo, se l'illuminismo è il progetto di un'incessante messa in questione di ogni figura dell'umano e di ogni progetto politico, sociale, economico. Non sarebbe però azzardato porre l'itinerario di Genovese sotto il segno di Nietzsche, che occhieggia in ciascuno dei passaggi chiave della sua proposta teorica. È infatti una tesi nietzscheana, ricorrente negli Attrezzi del filosofo, che il fenomeno centrale di ogni esperienza umana sia l'evento di un punto di vista; che la teoria stessa sia non tanto la fondazione di un sistema di verità, ma la messa in opera di un punto di vista sulla verità; che l'uomo occidentale, autocosciente, utilitarista, edonisticamente individualista, sia non tanto un universale quanto un particolare, la cui particolarità sta esattamente in questo suo pensarsi e realizzarsi «globalmente» come universale; che la realtà umana sia conflitto di punti di vista non destinato a democratica riconciliazione ma a incessante ristrutturazione e dislocazione del dissidio; che l'illuminismo sia, appunto, mito di un'umanità razionale e universale, ma anche e insieme messa in questione di ogni mito. Di qui l'intero itinerario che Genovese percorre, sollevando con crescente radicalità questo gioco di specchi. Come abitare dunque l'eredità illuministica, ovvero come pensare l'Occidente senza agirne meccanicamente i tic, gli automatismi politici, le cieche necessità economiche? Difficile dar conto di un percorso tanto ricco. Se ne possono indicare però alcuni snodi centrali: una acuta e puntuale critica della dottrina habermasiana del riconoscimento e dell'agire comunicativo; un efficace smontaggio dell'ermeneutica di Hans-Georg Gadamer e del suo ideale di fusione degli orizzonti; una pungente messa in questione della sua «teoria della giustizia» di John Rawls. Di qui, anche, la domanda che Genovese ha il merito e la forza di sollevare lungo tutto il percorso di questi venti saggi, che rendono conto di un quindicennio circa di interventi pubblici in bilico tra l'attualità sociopolitica e la riflessione teorica. Come pensare, allora, una politica dell'emancipazione quando tutti gli strumenti dell'emancipazione hanno dato prova di una curiosa inclinazione a realizzare il contrario? Come immaginare un progetto progressista che non precipiti istantaneamente e necessariamente nell'amministrazione (appena temperata) dell'esistente? Come immaginare un modello di riconoscimento che non segua né lo schema dell'abbandono dei più deboli al loro destino di debolezza né quello dell'annessione (ideologicamente rischioso e storicamente infondato, se è vero, come propone Genovese, che non si dà oggi vera e propria globalizzazione, ma più esattamente ibridazione, compromesso localmente definito e circoscritto, «creolizzazione»)? Nel complesso è un libro che tratteggia una sistematica decostruzione della tela di fondo entro cui si è mosso tutto il pensiero progressista - italiano, europeo, statunitense - degli ultimi venticinque anni. E se da un certo punto di vista questi «attrezzi» aiutano a riflettere su un passaggio in ogni senso epocale dell'eredità culturale moderno-contemporanea, da un altro punto di vista parlano con tono eloquente e inquieto a chiunque abbia a cuore la discussione che le sinistre italiane stanno faticosamente avviando in questa difficile stagione post-elettorale, interrogandosi non solo tatticamente, ma strategicamente, intorno alla propria ragione politica, sociale, filosofica.
(Federico Leoni)
1 luglio 2008
La ola di Veltroni
Veltroni parlava di accordo sulle riforme istituzionali e opposizione sul programma di governo, ma in realtà voleva significare accordo sul programma di governo. Ovviamente Berlusconi di questo accordo non ha assolutamente bisogno.

In alto a sinistra, sino al prossimo accordicchio....
La rabbia di Veltroni dunque produrrà una rottura insanabile : ci sarà accordo cioè solo sulle riforme istituzionali ma non sul programma di governo. In attesa di tempi migliori.
1 luglio 2008
Adam Smith e le proprietà dei metalli
I metalli non solo possono essere mantenuti con altrettanta piccola perdita quanto ogni altra merce (infatti vi sono poche cose meno deperibili dei metalli), ma possono anche senza perdita alcuna, essere divisi in qualsiasi numero di parti, e , fondendole, queste parti possono nuovamente riunirsi. Qualità che nessun'altra merce altrettante durevole possiede e che più di ogni altra li rende idoneo strumento di commercio e di circolazione. Colui che voleva comprare sale e non aveva che bestiame da dare in cambio, era necessariamente costretto ad acquistare ogni volta sale per un intero bue o un'intera pecora. Invece con il metallo poteva facilmente proporzionarne la quantità alla precisa quantità di merce di cui aveva immediato bisogno

Dunque le proprietà naturali di una cosa (merce) sono direttamente collegate con la posizione della cosa stessa nel sistema degli scambi. C'è una relazione allora tra valore d'uso e valore di scambio ? Andando nel merito, il sale sarebbe tanto più deperibile da non poter essere conservato ? E sarebbe meno proporzionabile del metallo alla quantità di merce di cui si avrebbe immediato bisogno ? Tale fungibilità del metallo non avrebbe come condizione la raffinata tecnica della metallurgia, mentre la tecnica per la produzione di sale è, per quanto complicata, più semplice da applicare ?
E allora perché il metallo è stato ad es. preferito al sale ? Ciò è avvenuto quando l’accumulazione della ricchezza è diventata un obiettivo primario ?
1 luglio 2008
La revoca delle sanzioni a Cuba
Finalmente, fra tante brutture e nefandezze, l'Unione europea ne ha fatta una buona. La revoca delle sanzioni a Cuba imposte nel 2003, dopo la svolta repressiva dell'Avana, che aveva portato a condanne spropositate per 75 oppositori (e che pesarono molto di più della fucilazione di tre poveracci che avevano tentato di sequestrare un ferry-boat), è una decisione saggia. E' dovuta all'insistenza del governo spagnolo di José Luis Zapatero, che ha rovesciato la linea oltranzista - e iper-bushista - del suo predecessore Aznar, e anche all'evidenza dei fatti. Le sanzioni del 2003, oltretutto già sospese nel 2005, erano simboliche - stop alle visite e ai contatti culturali, più vicinanza all'opposizione -, inefficaci e buone solo a provocare l'ulteriore irrigidimento dei cubani, che quando sentono puzza di pressioni o imposizioni più o meno indebite sbattono la porta. Ora Cuba, con gli investimenti della Cina e i generosi accordi garantiti dal venezuelano Chavez, non ha più le spalle al muro. E l'avvicendarsi fra Fidel e Raul, sia pure con molta prudenza e qualche contraddizione, ha rimesso in moto una situazione che sembrava bloccata. Il modello grossomodo cinese che s'annuncia risulta meno indigesto agli europei. Inoltre, parecchi degli oppositori condannati nel 2003 sono stati liberati, sia pure alla chetichella. Anche esponenti meno ultrà dell'opposizione - come il socialdemocratico Cuesta Morua - sembrano d'accordo con la revoca delle sanzioni, magari obtorto collo. Perché le sanzioni servivano solo ai settori più ortodossi del regime cubano e agli Stati uniti - da cui una volta tanto la Ue ha preso le distanze -, naturalmente contrari a ogni «flessibilizzazione» e decisi a portare avanti la miopissima (e brutale) politica d'embargo. Se ne riparlerà fra un anno, quando la Ue dovrà rivedere la situazione - e quando alla Casa bianca, speriamo, ci sarà Obama.
(Maurizio Matteuzzi)
«Iniziate a preparare i mojitos». Giovedì sera, ai giornalisti ansiosi di sapere se l'Unione europea avrebbe revocato le sanzioni a Cuba, il ministro degli esteri spagnolo Miguel Angel Moratinos aveva risposto così. Una battuta per indicare che la cena, programmata a margine della riunione dei capi di stato e di governo a Bruxelles su domanda della cancelliera tedesca Angela Merkel, sarebbe stata determinante per smussare le ultime resistenze. E ieri l'annuncio: i 27 hanno trovato un accordo favorevole all'Avana, revocando le sanzioni imposte nel 2003 e parzialmente sospese nel 2005: «Ora si apre una nuova tappa - ha annunciato Moratinos - tutto potrà essere discusso, compresi i diritti umani e la nuova situazione a Cuba. La Spagna - ha aggiunto - vuole che si facciano passi concreti per superare la sfiducia e per porre le condizioni perché in futuro si possa arrivare a un Accordo di associazione con Cuba». Un accordo che, nelle intenzioni di Moratinos «sarebbe importante» concludere «durante la prossima presidenza spagnola della Ue del 2010». L'Unione europea aveva imposto le sanzioni all'Avana nel 2003, dopo l'arresto di 75 dissidenti accusati di cospirazione, e dopo l'esecuzione, poco tempo dopo, di tre uomini che avevano sequestrato una imbarcazione carica di persone per fuggire dall'isola. Ma ora, ha aggiunto il capo della diplomazia spagnola facendo riferimento al «cambio» iniziato da Raul Castro e alla liberazione di numerosi oppositori detenuti, i leader europei «hanno visto che qualcosa si sta muovendo a Cuba» e hanno deciso di rimuovere «sanzioni che non sono servite a niente». Una posizione che la Spagna - prima ad aver approvato le sanzioni sotto il governo Aznar e prima ad aver ripristinato le relazioni con l'Avana, nel 2007, con il governo Zapatero - sosteneva da tempo e per cui aveva già mosso la propria diplomazia. Già a marzo, dopo una visita compiuta all'Avana, il commissario responsabile della Cooperazione allo sviluppo, Louis Michel, si era pronunciato in questo senso: « Credo che il compromesso costruttivo e il dialogo costituiscano la via migliore per realizzare i nostri reciproci obiettivi, le sanzioni del 2003, per quanto sospese e inapplicate impediscono di avanzare in questa direzione». Dal canto suo, Cuba aveva firmato recentemente il Patto internazionale sui diritti civili e politici e quello sui diritti sociali, economici e culturali, e aveva accettato la visita dell'inviato speciale dell'Onu per il diritto all'alimentazione: disponibilità ribadita anche durante l'ultimo vertice della Fao, a Roma, dove Cuba è stata presente con la delegazione più rappresentativa. Per la piccola isola, sempre sotto embargo Usa, il «mojito» non sarà però senza condizioni. Per superare disaccordi o reticenze da parte di Germania, Repubblica ceca e Svezia, i paesi maggiormente contrari alla revoca delle sanzioni, i 27 hanno infatti deciso che l'apertura dev'essere sottoposta «a una valutazione annuale». Moratinos ha perciò precisato: «Tra un anno dovremo valutare i risultati del dialogo politico, anche nel campo dei diritti umani». Le sanzioni, però, «vengono tolte definitivamente», e lunedì prossimo il Consiglio dei ministri dell'agricoltura approverà formalmente la decisione, che avrà carattere immediato. Altrettanto immediata la reazione dei dissidenti anticastristi, che accusano la Spagna per il ruolo chiave avuto nel convincere gli europei. Critica la Spagna anche Franco Frattini, che avrebbe voluto un documento finale ancora più condizionante verso Cuba. Duro anche l'intervento di Washington, «delusa» dalla Ue, che ha solo parzialmente recepito la posizione Usa sostenuta a spada tratta dalla Repubblica ceca. Positive le reazioni della stampa cubana, che titolava a tutta pagina: «I ministri degli Esteri dell'Ue decidono revocare le ingiuste sanzioni contro Cuba». Parzialmente superate, quindi, le preoccupazioni degli intellettuali che avevano denunciato le pressioni di Washington e l'esistenza di un documento segreto rivolto ai 27: «Un gruppo di nazioni ex comuniste dell'Europa orientale, capeggiate dalla Repubblica ceca - aveva scritto lo spagnolo Pascual Serrano - si sono accodate a Washington: le stesse che si sono messe a sua disposizione per fornire prigioni clandestine alla Cia, e per coprirne il sequestro dei prigionieri». EUROPA-CUBA Nelle conclusioni del vertice dell'Unione europea, il proposito di andare avanti con le ratifiche in altri paesi che non si sono ancora espressi, fra cui l'Italia dove Berlusconi si atteggia a guastafeste. Appuntamento il 15 ottobre a Bruxelles per rimettere insieme i cocci dell'Europa intorno al trattato di Lisbona
(Geraldina Colotti)
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| inviato da pensatoio il 1/7/2008 alle 7:59 | |
1 luglio 2008
I furbetti della Grande Mela
A Wall Street si respira aria pesante. L'estate newyorchese è umida, soffocante e pronta al peggio. La borsa, ieri, è partita male, con il Dow Jones rapidamente sceso sotto i 12 mila punti e gli indici di riferimento in perdita. Ma nel venerdì del Financial District si è parlato anche di altre grane - quelle giudiziarie - dei furbetti della Grande Mela. Ralph Ciotti e Matthew Tannin, due ex manager della Bear Stearns, sono stati arrestati giovedì con l'accusa di aver frodato i loro clienti con i famigerati fondi di speculazione. Il dramma dei mutui made in Usa, insomma, si trasferisce nelle aule di tribunale, mentre l'Fbi annuncia numeri da capogiro della sua maxi-indagine sui «malicious mortgage» apertasi lo scorso marzo. Finora i condannati sono 173, mentre sono state arrestate 283 persone su un totale di 406 incriminati. Un vero e proprio esercito, quello dei furbetti di Manhattan con il colletto inamidato e l'ufficio che si affaccia sul cratere di Ground Zero. L'Fbi starebbe indagando su 19 grandi società, incluse banche d'investimento, agenzie di rating e hedge fund, come quelli gestiti dai due imputati eccellenti. Gli stati più colpiti da questo tipo di attività illecita sono Florida, Texas, New York, Ohio e Illinois. In alcuni casi - spiega l'Fbi - le frodi sui mutui sono collegate a bande e casi di droga, in quanto rappresentano un meccanismo per il riciclaggio di denaro. A Chicago le autorità hanno incriminato 67 persone per frode fra agenti immobiliari, costruttori e avvocati. «Questo tipo di crimini ha fatto sì che le banche e le società finanziarie si adoperassero per stringere gli standard di credito», sottolinea Patrick Fitzgerald, procuratore di Chicago. Ma il caso sulla bocca di tutti gli operatori degli ambienti finanziari, ieri a New York, era quello degli arresti alla Bear Stearns. Gli investigatori, come accade in Italia, hanno tratteggiato i due imputati attraverso le intercettazioni. Ma negli Stati Uniti il principe dei mezzi di comunicazione, più che il telefono, è l'e-mail. I giornali americani di ieri ospitavano i dialoghi elettronici dei due imputati, in prima pagina. La ricostruzione degli inquirenti inizia nel febbraio del 2007. Cioffi e la sua squadra festeggiano il lucroso mercato dei fondi di speculazione con un giro di vodka. Il mercato va bene, i soldi sono facili. Una sbornia. Ci si sveglia a marzo e le cose vanno male. Cioffi scrive: «Ho mal di pancia per la nostra performance di questo mese». Anche Tannin è preoccupato, probabilmente si rende conto dell'abisso che ha di fronte. «Non siamo diciannovenni in Iraq», lo rimprovera il collega con un'email. L'altro, quasi incredulo, gli scrive: «Non ci crederai, sono riusciuto a convincere altre persone ad aggiungere soldi». Questi i testi sui Blackberry - i cellulari con cui si possono leggere le e-mail - degli uomini di Bear Stearns. I quali, tre giorni dopo, dipingevano un'immagine ben più rosea di fronte ai loro clienti. Ma in aprile gli investitori cominciano ad innervosirsi. Uno chiede ritirare 57 milioni di dollari. Cioffi lo rassicura: «Io stesso ho messo 8 milioni, non c'è da preoccuparsi». Ma la situazione, verso la fine del mese, precipita. Un rapporto dalle tinte fosche prospetta quel che poi è accaduto. Tannin, all'alba di una domenica mattina, è sconvolto: «Il mercato va dannatamente male». Qualcosa che il manager non poteva permettersi di scrivere sull'e-mail della Bear Stearns, sottolineano gli investigatori. Tannin aveva quindi spedito una missiva elettronica privata, alla moglie di Cioffi. Qualche giorno dopo, il 25 aprile, i due parlano di fondi in «gran forma» in una conference call con gli investitori. Ma, secondo la ricostruzione degli investigatori, la frittata è ormai fatta. Poco prima del collasso dei fondi, Cioffi scrive un'altra email: «Ho sciacquato trent'anni di carriera giù nella fogna». Giovedì gli arresti. Da Wall Street alla corte federale di Brooklyn, dopo manette e impronte digitali di rito. Edward J. Little, avvocato di Cioffi, difende il suo cliente spiegando che «ha perso i soldi esattamente nella stessa maniera dei suoi investitori». «Il fatto che i suoi fondi siano stati i primi a perdere lo può rendere un obiettivo facile - continua l'avvocato - ma non vuol dire che abbia fatto qualcosa di sbagliato». I legali respingono le accuse, ma i loro assistiti rischiano parecchio. Tannin potrebbe avere 20 anni per frode e complotto, Cioffi 40 perché su di lui grava anche l'accusa di insider trading. I due manager non hanno avuto problemi a pagare le cauzioni, rispettivamente 4 milioni per Cioffi e 1,5 milioni per Tannin. Per sborsare i soldi hanno dovuto ipotecare le loro case: la villa in New Jersey e i terreni in Florida di Cioffi e l'appartamento di Manhattan di Tannin.
Il caso dei due direttori degli Hedge funds di Bear Stearns, Ralph Cioffi e Matthew Tannin, arrestati dal dipartimento di giustizia Usa, per mano dell'Fbi, è l'aspetto più rilevante di quelli che Il Sole 24 Ore chiama «arresti eccellenti». Il giornale italiano sembra assai soddisfatto che «nelle ultime 24 ore gli arresti sono stati di 60 tra trader, operatori finanziari, manager e banchieri». L'atteggiamento del sistema economico e finanziario (e politico- giudiziario) è sempre lo stesso. Si nega l'esistenza del problema, finché è possibile occultarlo; poi lo si scarica su un gruppo di responsabili, cercando di mettere in evidenza uno, o pochi mariuoli speciali, coprendoli di vergogna. L'accusa in questo caso è di aver tradito la pubblica fede: non tanto di aver inventato o contribuito a sviluppare un sistema pericoloso come quello dei mutui subprime, ma di aver esagerato nel magnificare la loro sicurezza, conoscendone in anticipo la sorte. I due se la ridevano tra loro, via email, proclamando in pubblico: sono sicuri come i dollari contanti, anzi sono meglio, perché rendono assai di più. Gli arresti, la faccia feroce della giustizia, le class action che molti risparmiatori stanno articolando, non possono fermare la valanga. L'economia americana è ormai compromessa in un modo profondo; non sa se sia preferibile limitare a Wall Street le conseguenze del disastro oppure riuscire a distribuirne una parte sul resto del mondo, in modo da limitare i danni per le banche e la finanza con base negli Stati uniti. Gli Hedge Funds, inventati per la Classe agiata, come la si chiamava una volta, hanno investito con la tracotanza abituale, nei mutui subprime, cioè su mutui e ipoteche che la povera gente, o il ceto medio, accendeva sulle proprie case. Quando i mutui sono diventati troppo cari, i poveri hanno perduto la casa e i ricchi il loro investimento. Per i fondi si è trattato del si-salvi- chi-può che nella versione dei Cioffi e dei Tannin diventa si-salva-chi-sa. A Monaco, in Europa, è iniziata una grande assemblea di tenutari di Hedge Funds. Nata forse per conquistare nuovi clienti doviziosi, essa si ribalta in un compianto pubblico che potrebbe avere per titolo: come siamo caduti in basso. E le cifre che affiorano e che Bloomberg.com offre all'attenzione dei lettori, sono davvero miserevoli, tanto che verrebbe voglia di aprire una pubblica colletta. Le banche soltanto hanno messo in bilancio svalutazioni che ammontano a 397 miliardi di dollari, ma John Paulson, il finanziere che ha fatto «miliardi scommettendo sulla caduta dei mutui subprime» assicura che le banche sono solo a un terzo del loro calvario che raggiungerà i 1.300 miliardi di dollari tra svalutazioni e perdite. Ma non tutti gli altri operatori presenti si dichiarano altrettanto pessimisti. Ci sarebbero tra Usa ed Europa 400+400 miliardi di dollari pronti a ricomprare mutui disastrati. Tentiamo di nuovo, che ne dite?
(Guglielmo Ragozzino)
1 luglio 2008
Il gverno si prende anche i soldi destinati alle Regioni
I soldi delle regioni li prende il governo. Questo il nocciolo dei primi due articoli della bozza di legge finanziaria arrivata in Consiglio dei Ministri mercoledì. Berlusconi pensa alla campagna elettorale per le elezioni regionali del 2010 (la Sardegna nel 2009): se conquistasse le regioni svanirebbe l'unico vero elemento di contrasto al governo nazionale sul piano istituzionale nella elaborazione delle scelte strategiche per il paese. Poiché la spesa ordinaria è assorbita dagli stipendi e dalle bollette, uno dei principali strumenti di azione politica rimane la programmazione delle politiche di sviluppo. Per esempio, in Puglia o in Piemonte, il cittadino al voto nel 2010, dovrebbe scegliere valutando la differenza tra la qualità del governo nazionale di centrodestra e la qualità del governo regionale di centrosinistra. Ma se il governo nazionale avocasse a sé le risorse regionali e iniziasse a spenderle, il cittadino pugliese o piemontese potrebbe pensare che il Pdl sia più efficace del centrosinistra nel risolvere i suoi problemi. Ignorando che un governo federalista ha sottratto alle regioni uno degli strumenti cardine della propria autonomia, le risorse aggiuntive. Entriamo nel merito. A Caserta, nel gennaio 2007, al seminario dell'Unione Prodi aveva lanciato la programmazione delineata nel Qsn (Quadro strategico nazionale): 124 miliardi per l'Italia, di cui 101 al sud (53,782 miliardi di Fas, fondo aree sottoutilizzate, 47,311 miliardi di fondi strutturali europei e cofinanziamento nazionale), di questi più del 55% attribuiti alle regioni. Si aggiungono poi più di 14 miliardi di risorse liberate, i resti della programmazione precedente 2000/2006 per l'ex obiettivo 1( tutto il sud tranne l'Abruzzo). Mercoledì, in conferenza stampa, Berlusconi ha sostenuto che le regioni non erano state capaci di spendere le proprie risorse europee. Quindi il Governo aveva deciso di assumere la riprogrammazione della loro spesa. Secondo la bozza di finanziaria, sono «revocate» le assegnazioni del Fas operate dal Cipe, ma non impegnate, verso le regioni e le provincie autonome (18 miliardi al sud, 5,5 al centronord), sono «destinate» al governo le risorse liberate, e, per avere un procedimento di spesa più efficace, il governo può «rimodulare» l'uso dei fondi europei a disposizione delle regioni ( 12, 5 miliardi per il centro nord, 31,8 per il Sud). Secondo fonti del Ministero dell'economia all'inizio il Governo aveva intenzione di varare un decreto. La protesta delle regioni ha bloccato un provvedimento che potenzialmente avrebbe trasferito le competenze di programmazione di 82 miliardi dalle regioni al Governo. La versione definitiva della finanziaria dirà se il tentativo è fallito. Il centrodestra, capendo quali sono gli strumenti finanziari delle politiche di sviluppo (e della riproduzione del consenso), ha tentato subito di assumere il controllo di quelli in mano alle regioni. Sul Fas non sarebbe stato possibile se il Governo Prodi e le regioni avessero vincolato l'oggetto della spesa regionale programmata stipulando gli « accordi di programma quadro». E' una dimenticanza grave che i governatori di centrosinistra rischiano di pagare cara. Al contrario, per vincere le elezioni del 2010, è necessario usare i fondi regionali per creare lavoro stabile e di qualità sostenendo le filiere generatrici di innovazione o iniziando la raccolta differenziata dei rifiuti. Altrimenti perché un precario o chi protesta a Chiaiano dovrebbe votare il centrosinistra? La sconfitta del 13 aprile è dovuta all'assenza di un progetto sul paese e alla scarsa efficacia nell'uso della macchina amministrativa. Dei 124 miliardi del Qsn non è stato ancora speso nulla: spenderà tutto Berlusconi.
(Andrea Del Monaco)
1 luglio 2008
Elogio dell'agricoltura biologica
«Il cibo sia la tua medicina» ammonì Ippocrate, padre dei medici saggi. Ma il sistema agroalimentare mondiale è spesso «malato». Sul lato dell'offerta: in India i contadini si suicidano per i debiti contratti nell'acquisto di semi e input chimici, negli Stati Uniti molti braccianti agricoli avvelenati dai pesticidi muoiono a 50 anni. Sul lato della domanda: i cittadini coreani protestano contro la carne importata dagli Usa, i prezzi elevati significano penuria per i consumatori con scarso potere di acquisto. Per non parlare delle emergenze: come in Etiopia, dove in due decenni si sono avute ben cinque grandi siccità, e anche adesso per gli scarsi raccolti sono alla carestia milioni di produttori di cibo, contadini poveri. In questa situazione, e sotto la spada di Damocle del cambiamento climatico, che ruolo ha l'agricoltura biologica? Una nicchia salutare per chi produce e per chi consuma: ma è riservata a chi ha potere d'acquisto, oppure è potenzialmente accessibile a tutti, compresi produttori e consumatori poveri? «Coltivare il futuro» è l'ambizione dell'insieme di organizzazioni - produttori, tecnici, associazioni, trasformatori - riunite nell'Ifoam, Federazione internazionale dei movimenti per l'agricoltura biologica, il cui sedicesimo congresso mondiale si è concluso ieri a Modena con partecipanti da 80 paesi (in maggioranza non direttamente agricoltori). Le coltivazioni bio sono quelle che, basandosi sul rispetto dei cicli ecologici ed escludendo in genere gli input di sintesi e le monocolture, «salvaguardano la biodiversità, proteggono la fertilità del suolo, liberano dal controllo delle compagnie multinazionali, producono cibi più nutrienti» spiega lo studioso etiope Tewalde Egziaber, noto per aver guidato il gruppo dei paesi G 77 (il grande gruppo delle nazioni «in via di sviluppo») nei difficili negoziati internazionali per i diritti degli agricoltori e la biodiversità agricola. «Non confondiamo i 30 milioni di ettari totali interessati dalle certificazioni formali e in maggioranza concentrati in Europa, con le coltivazioni organiche non certificate che non riusciamo a quantificare e producono per i mercati locali, anche in Africa, Asia e America Latina. Nel nostro movimento c'è posto per tutti» dice Angela Caudle de Freitas, direttrice esecutiva dell'Ifoam. In molti paesi occidentali, fra cui l'Italia, il biologico non è più una nicchia - e tantomeno lo sarebbe se i costi ecologici delle colture fossero incorporati nei prezzi. Ma, ha ricordato una partecipante africana, «nei nostri paesi le coltivazioni biocertificate sono per l'export, anche se magari "equo"; caffé, tè, cacao, frutta tropicale». Dunque non si esce dalla logica della produzione per élite, e dall'impatto ecologico legato ai trasporti su lunga distanza, le famigerate «miglia-cibo». Risponde Caudle de Freitas: «Il problema non ci sarebbe se l'agricoltura organica diventasse la norma, che è una necessità ecologica e sociale. Noi cerchiamo di incoraggiare il ciclo corto, locale e diretto dal produttore al consumatore, così da ridurre prezzi e chilometri. Sta succedendo ad esempio in Africa dell'ovest, o in Brasile o in India. Occorre però anche la volontà dei governi». Ma l'agricoltura biologica produce abbastanza per vincere la fame e aiutare il clima? Pare di sì, perché ottimizza l'uso di risorse che sono o diventeranno scarse, come l'acqua, l'energia fossile, il suolo fertile. Ma dovrebbe sganciarsi di più dai carburanti fossili (gli agrocarburanti per l'azienda agricola sono una buona idea), e non puntare sulle produzioni animali. Da qui l'importanza dell'educazione alimentare
(Marinella Correggia)
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| inviato da pensatoio il 1/7/2008 alle 0:29 | |
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